Un impegno a mantenere l’aumento di temperatura entro i due gradi centigradi, sostegno ai paesi più poveri e periodiche conferenze di revisione.
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Testo integrale dell’accordo e commenti su http://lanuovaecologia.it/cop21-strada-giusta-ma-in-salita/
I delegati di 195 paesi che partecipano alla “Conferenza mondiale sul clima” hanno firmato un accordo in cui si impegnano a ridurre le emissioni inquinanti in tutto il mondo. Qualcuno ha definito l’accordo “storico”, un termine utilizzato anche da moltissimi altri giornali di tutto il mondo. L’importanza dell’accordo è data sostanzialmente dal fatto che è stato sottoscritto da tutti i paesi partecipanti: anche da quelli emergenti, che spesso sfruttano pesantemente fonti di energia non rinnovabile. L’accordo contiene sostanzialmente quattro impegni per gli stati che lo hanno sottoscritto (t
Note sul percorso
Riportiamo di seguito:
• Clima, mercati finanziari e reputazione internazionale: i meccanismi della Cop21 spiegati
• A passo di gambero: l’Italia plaude alla Cop21, ma arrivano retromarce sulla green economy
Clima, mercati finanziari e reputazione internazionale: i meccanismi della Cop21 spiegati
Intervista all’economista Massimiliano Mazzanti, di ritorno da Parigi (da http://www.greenreport.it/news/clima/clima-mercati-finanziari-e-reputazione-internazionale-i-meccanismi-della-cop21-spiegati/ )
Cosa manca per far funzionare il primo accordo che tutela un bene pubblico globale, col prezzo del petrolio ai minimi
[18 dicembre 2015] di Luca Aterini
Dopo giorni di lunghe trattative, infine a Parigi un accordo sul clima è stato raggiunto. Lei ha seguito i negoziati della Cop21 da vicino: come li giudica?
«A Parigi ho vissuto un clima di grande attesa, coinvolgente dal punto di vista delle energie in campo e della partecipazione. Parigi ha segnato un primato assoluto: è stato stipulato un accordo dove per la prima volta ben 196 parti hanno concordato la misura entro la quale tenere a freno l’aumento della temperatura media globale, la necessità di monitorare in modo più efficace l’andamento delle emissioni di gas serra».
Reputa dunque l’accordo di Parigi sufficientemente ambizioso?
«Non esiste un precedente alla Cop21. Per la prima volta si è imposto al centro del dibattito la difesa di un bene pubblico realmente globale. È vero che l’accordo non prevede sanzioni per i firmatari che non lo rispetteranno, ma è necessario fare professione di realismo: oggi il rispetto del diritto internazionale si basa in gran parte sugli aspetti di reputation degli stati, e la Cop21 va a toccare proprio questi meccanismi. Premesso questo, alcuni elementi dell’accordo non convincono. Si pensi ad esempio ai 100 miliardi di dollari di finanziamenti minimi annui con cui i Paesi industrializzati dovranno sostenere la transizione per quelli in via di sviluppo: può sembrare una cifra ragguardevole, ma ammonta circa al Pil del Marocco, o – per dare il senso delle proporzione – circa lo 0,25% di quello Ue e Usa. La Breakthrough energy coalition, promossa da ricchi privati come Bill Gates e Mark Zuckerberg, è dunque potenzialmente capace di muovere risorse maggiori di quelle che gli stati hanno deciso di stanziare. Un fattore che si ritrova più volte all’interno dell’accordo uscito dalla Cop21, che confida molto sul mercato e i suoi attori (singoli privati o fondi d’investimento che siano) per spingere il cambiamento».
Con quali conseguenze? Affidare un ruolo tanto importante a energie private pare una mossa aleatoria.
«Affidarsi in gran parte ai mercati porta con sé possibilità ma anche criticità. All’interno dei mercati finanziari esistono masse di liquidità impensabili, oggi molto più fluide delle risorse pubbliche. Il problema, appunto, è riuscire a farle muovere nella giusta direzione. La Cop21, con la sua carica politica, fa leva proprio sull’aspetto reputazionale: se i privati come le banche e i fondi sovrani comprendono che lo scenario sta volgendo verso la green economy inizieranno ad anticipare il cambiamento – per fini di profittabilità nel breve termine, certo, ma anche guardando (si pensi a fondi pensione) al lungo periodo –, con la possibilità di riallocare vastissime risorse economiche».
Guardando agli stati, come anche all’Unione europea, quale ruolo rimane dunque loro dopo la Cop21?
«I mercati possono fare molto, ma mancano ancora importanti funzioni di indirizzo. La Cop21 non ha agito in modo incisivo sul carbon pricing, ad esempio, che sia tramite una carbon tax o uno sviluppo dell’emission trading. In Europa – che continua ad essere un punto di riferimento in tema di politiche ambientali – l’Ets rappresenta uno strumento che, pur con tutti i suoi difetti, può portare a risultati importanti se utilizzato in termini stringenti. In Ue le quote già si riducono di anno in anno. Il vero problema per l’Unione, come per l’Italia, è un altro: l’Europa è riuscita a rimanere in linea con gli obiettivi di Kyoto, ma in un contesto di recessione economica e elevatissima disoccupazione. Con una crescita da piena occupazione avremmo raggiunto gli obiettivi? Questa domanda dovrebbe riportarci a lavorare sull’innovazione con investimenti pubblici, lavorare per andare oltre il conflitto economia-ambiente, ma non lo stiamo facendo. Rimaniamo ancorati alla logica dell’austerità».
In questo contesto, il prezzo del petrolio è arrivato a quota 35 dollari al barile: come va a incidere sulle politiche per la transizione energetica elaborate a Parigi?
«Sappiamo qual è la quota dei combustibili fossili che è necessario lasciare sottoterra per mantenere il riscaldamento globale entro i limiti fissati dalla Cop21. Si tratta di un limite fisico all’estrazione delle risorse, quando anche noi economisti troppo spesso dimostriamo di essere abituati a spostare il dibattito più a valle. Prevedere il prezzo del petrolio a uno o due anni è impresa ardua, ma ci sono forti dubbi sulla possibilità di rimanere al di sotto dell’obiettivo climatico dei 2 °C con prezzi così bassi come quelli di oggi: dobbiamo agire sul carbon pricing. Quel che infatti certamente sappiamo è che tali prezzi non internalizzano assolutamente le esternalità negative dovute all’utilizzo dei combustibili fossili, contando le quali il prezzo del petrolio arriverebbe a 200-300 dollari a tonnellata».
A passo di gambero: l’Italia plaude alla Cop21, ma arrivano retromarce sulla green economy
Ferrante: «Almeno un soprassalto di consapevolezza dopo Parigi sarebbe lecito reclamarlo» (da http://www.greenreport.it/rubriche/a-passo-di-gambero-litalia-plaude-alla-cop21-ma-arrivano-retromarce-sulla-green-economy/ )
Da governo e non solo una sfilza di provvedimenti di retroguardia
Tra il dire il fare c’è di mezzo il mare. Tra le dichiarazioni della Cop21 e le scelte politiche concrete in questo Paese sembra esserci un oceano. A Parigi si firma un accordo che pur con tutta la prudenza e con le critiche che si possono fare alla vaghezza degli strumenti previsti, segna un punto di discontinuità perché come ha detto il direttore esecutivo di Greenpeace International «mette i combustibili fossili dalla parte sbagliata della storia».
E in Italia invece si susseguono scelte tutte contro le rinnovabili, l’efficienza, l’economia circolare. Spiace dovere fare l’elenco delle brutture cui abbiamo dovuto assistere nelle ultime settimane, proprio a cavallo di Parigi.
Cominciamo con il decreto del governo che dovrebbe prevedere gli incentivi per le rinnovabili non fotovoltaiche. È un decreto ponte che sarebbe dovuto uscire un anno fa e accompagnare le rinnovabili sino al 2017, quando dovrà entrare in vigore un sistema tutto nuovo. Un ritardo insopportabile che lascia gli operatori in un’incertezza insostenibile ha fatto sì che questo decreto fosse inviato a Bruxelles (per un indispensabile ok da parte Ue) solo da pochi giorni fa, e quindi non è possibile che il decreto venga emanato prima di gennaio 2016: considerando che da una parte ci vorrà un anno perché quegli incentivi entrino in vigore e tra un anno invece si dovrebbe di nuovo cambiare tutto, è legittimo che quegli operatori ritengano cialtrone un governo che si comporta così. Se poi si guarda ai contenuti di quel decreto ci sono solo tagli (indiscriminati) e senza tanti criteri a tutte le rinnovabili. Tranne salvare le solite lobby. Per cui si prevedono generosi incentivi per la conversione degli ex-zuccherifici e si arriva al paradosso che una “solita manina” nel passaggio in Conferenza Stato Regioni reinserisce gli incentivi per gli inceneritori (peraltro più alti di quelli previsti per vere rinnovabili quali eolico e biogas).
Nel frattempo l’Autorità delibera una riforma delle tariffe che, spostando gli oneri dalla parte variabile a quella fissa, di fatto scoraggia l’autoconsumo. E questo nonostante le proteste di tutti gli operatorim sostenuti dai presidenti delle commissioni Ambiente di Camera e Senato. Ma se ormai tutti condividono che il fotovoltaico – ad esempio – non abbia più incentivi se se ne scoraggia anche l’impiego in autoconsumo non è proprio comprensibile come si possa pensare di raggiungere gli obiettivi dichiarati a Parigi che necessariamente richiedono un aumento di ricorso alle rinnovabili.
Ma non finisce qui: il Gse in queste settimane si sta distinguendo per le scelte sui titoli di efficienza energetica che sostanzialmente intervengono in maniera retroattiva non riconoscendo (non si capisce su quali basi) operazioni già realizzate che in alcuni casi avevano persino avuto benestare preventivo dall’Enea o dallo stesso Gse, gettando nella disperazione Esco (serie), agricoltori che avevano investito in serre, imprese. Peraltro se questo è l’annuncio di ciò che ci riserverà la riforma dei titoli prevista per la primavera, dovremo aspettarci una grave battuta d’arresto anche sull’efficienza (e non è possibile limitarsi al pur ottimo provvedimento dell’ecobonus in edilizia).
Intanto il ministero dell’Ambiente (che su rinnovabili ed efficienza esprime silenzio assordante) fa circolare una bozza di decreto attuativo del famigerato articolo 35 dello Sblocca Italia in cui si prevedono 9 (nove) nuovi inceneritori con taglie che variano dalle 100.000 alle 350.000 tonnellate/anno – uno ciascuno in Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Sardegna e due in Sicilia –, si immagina con gli incentivi previsti nel decreto “rinnovabili” (sic!), sulla base di calcoli di fabbisogno che sembrano fatti negli anni ’90. Alla faccia dell’economia circolare!
E in quest’attacco (concentrico) che succede nella notte del solito assalto alla diligenza alla legge di stabilità alla Camera? Che la lobby delle biomasse (importate) ottiene una proroga degli incentivi per i suoi vecchi impianti (ampiamente ammortizzati) con il governo rappresentato dal solitamente “occhiuto” Morando che da parere favorevole. Poco importa se questo “regalo” andrà a pesare sulle bollette di famiglie e imprese e metterà a repentaglio le somme che dovrebbero essere destinate alle “vere” rinnovabili. Basta far contente le lobby, come quando lo stesso governo tiene impropriamente alta l’Iva sui pellet per favorire l’uso di combustibili fossili.
Insomma, un disastro in un Paese il cui governo che appare privo di qualsiasi strategia energetica che non sia quella di accompagnare la politica estera dell’Eni. Il 2 gennaio del 2015 il premier annunciò il green act, che si è poi inabissato e che forse non vedrà mai la luce. Non chiediamo tanto ma almeno un soprassalto di consapevolezza dopo Parigi sarebbe lecito reclamarlo.