Questo è un proverbio di origine africana, ripreso da Papa Francesco durante il raduno degli studenti in Piazza San Pietro nel 2014, in cui ha voluto sottolineare la presenza di studenti, di insegnanti, di personale Ata, di genitori. Questo antichissimo proverbio, che a noi piace modificare parlando sia di bambini sia di bambine, tocca una profonda verità.
Ritrovare la consapevolezza che per educare una bambina o un bambino servono interi villaggi è il punto di partenza per far ritrovare alla scuola la sua naturale nicchia ecologica.
La scuola privata delle sue connessioni territoriali, familiari, culturali, istituzionali si ritrova necessariamente impoverita e quindi meno resiliente rispetto alle esigenze di chi la frequenta. Qualunque soggetto, privato delle sue naturali relazioni si ritrova indebolito, se poi a questo si aggiunge un periodo di dieta forzata come quella degli ultimi 30 in cui i finanziamenti all’istruzione hanno costretto molte scuole a far comprare beni di prima necessità ai genitori, figuriamoci se in qualche modo poteva mantenersi in forma dal punto di vista della manutenzione e dell’innovazione strutturale e didattica.
Quindi scuola isolata e denutrita, da decenni, per decenni, ma sempre meno persone se ne preoccupavano. Fino alla pandemia, fino a quando questo minuscolo essere non ci ha messi davanti a come le carenze del sistema pubblico, sanitario o culturale che sia, si ripercuotono su tutta la comunità e più siamo fragili, più il risultato sarà violento.
Sì, perché è stato terribilmente violento isolare bambini in età evolutiva. Insegnanti, mamme e papà possono raccontare cosa vuol dire veder regredire un bambino intelligente e sensibile per mancanza di relazione tra pari. In età evolutiva la relazione tra pari è come l’acqua. E se, ne veniamo privati, avremo delle ripercussioni, fortunatamente reversibili, se per breve periodo.
Ma questa violenza ha reso visibile ad occhio nudo l’importanza della relazione e dell’acquisizione di competenze relazionali, che sono connesse allo stare e sbagliare insieme.
Non vogliamo affatto demonizzare la didattica a distanza che è un’enorme risorsa e non dovrebbe essere abbandonata, ma integrata, però riteniamo importante che a partire da questa pazzesca esperienza con cui il nostro corpo docente ha dovuto confrontarsi, si cominci a ridare la giusta dignità ai processi di apprendimento.
Già per celebrare la fine dell’anno scolastico, molte scuole (dirigenti, insegnanti, genitori, alunni) si sono confrontati con la necessità di prendere in considerazione gli spazi pubblici aperti intorno all’edificio scolastico.
Oggi l’unica alternativa per evitare che la componente più giovane della nostra comunità subisca gli effetti più deleteri del distanziamento sociale è fare uno sforzo immaginativo, organizzativo e collaborativo.
Abbiamo bisogno di valutare l’ospitalità di ogni cortile scolastico, di ogni piazza o parco pubblico, di ogni struttura pubblica o privata connessa alla cultura: ogni plesso potrebbe analizzare concentricamente ciò che ha intorno. Serve buon senso, amore e senso di responsabilità nella sua accezione positiva che indica la capacità di caricarsi del peso comune, un peso che bambini e adolescenti non possono sopportare da soli.
Che l’intero villaggio (insegnanti, genitori, ma non solo) si stringa intorno all’obiettivo di rendere possibile la possibilità di imparare a partire dalla relazione sia tra studenti e docenti, sia tra studenti, sia tra gruppo classe e società civile.
Questo approccio richiede uno sforzo immenso, ma è stato per mesi sotto gli occhi di ognuno di noi il risultato di mesi di negazioni di un diritto che in età evolutiva deve essere considerato inviolabile: apprendere in maniera complessa, dalle esperienze e dalle relazioni.
Questo a breve termine, a lungo termine è necessario che si ricominci ad investire nella scuola, sia per quanto riguarda gli spazi di apprendimento sia per quanto riguarda l’integrazione disciplinare delle conoscenze, ma soprattutto sulle competenze pedagogiche, relazionali e formative.