Di cosa parlano i media?
di
Marcello Cella
Di cosa parlano quando parlano di noi? Intendo dire i mass media. E anche quando non parlano di noi di cosa parlano?
La domanda mi è sorta spontanea la sera del 23 marzo di ritorno dalla bellissima manifestazione di Roma. Una
manifestazione che, al di là delle motivazioni serie che la muovevano, è stata soprattutto
un’esplosione di socialità, di gioia, di facce, di colori, di suoni, di odori, di risate, di applausi,
di urla, di amore, insomma di vita nei suoi significati più nobili e veri. Di quella vita che spesso il
quotidiano con i suoi riti appanna e che solo in queste occasioni ritorna alla luce con tutta la forza della carne e
dell’immaginario, dello spirito e della materia, di quella materia di cui sono fatti i sogni
dell’uomo. Insomma arrivo a casa con gli occhi, le orecchie e soprattutto l’animo invaso da questo
enorme e indicibile senso di gioia per aver partecipato a questo evento epocale insieme a tanti "fratelli" e
"sorelle" di spirito e di idee e ingenuamente accendo la televisione pensando che una cosa di tali dimensioni non
potrà passare inosservata anche da parte dei più ottusi e allineati mass media filogovernativi. Mi
dico che qualche televisione o qualche giornalista avrà preparato qualche trasmissione su questa
manifestazione unica per significato e dimensioni negli ultimi cinquant’anni di storia repubblicana. Non
può non averlo fatto. Ma, attivato il telecomando, saltello da una televisione all’altra e il
sentimento di gioia che mi pervade lentamente scema. Le televisioni di sabato 23 marzo 2002 trasudano come al solito
di pippibaudi, sorellecarlucci, gerriscotti, maicbongiorni, quiz a premi, presentatori imbalsamati, comici che non
fanno ridere, e vallette sorridenti e seminude, e letterine, e veline, e schedine, e documentari sugli animali, e
noiosissimi film d’azione americani (anche la rappresentazione della velocità dell’azione
può essere di una noia mortale), e televendite, e maghi, e programmi sull’alta moda, e concerti di
liscio da balera di quart’ordine, e poi ancora pubblicità, merci, pubblicità, merci,
pubblicità… Sul momento non riuscivo a crederci. "è la solita tv di regime", mi sono detto
frullando incazzato il telecomando sulla poltrona. Come quando in Germania Est, mentre cadeva il Muro di Berlino, la
televisione di stato passava concerti di musica classica o l’ultimo servizio sulle magnifiche conquiste
economiche del socialismo reale. Ma poi ho riflettuto e ho capito che non è solo questo, c’è di
più. Una televisione che si è ormai trasformata in supermercato permanente al servizio
dell’ultimo prodotto lanciato sul mercato non ha più bisogno di alcun input politico per essere quello
che è oggi. La glorificazione quotidiana della merce e del denaro non può concepire nemmeno
lontanamente un mondo in cui si possa consumare e vivere in modo diverso, o addirittura non consumare per niente, e
ha il terrore di una comunicazione fra gli uomini che non sia il chiacchericcio vuoto sull’ultimo ritrovato
tecnologico dell’industria dell’intrattenimento (esiste qualcosa oltre all’intrattenimento nella
televisione e nei maggiori quotidiani e settimanali italiani oggi?). La comunicazione mediatica dominante,
televisiva ma non solo, non prevede quell’unicum della comunicazione umana che è fatta di contatto
diretto con le cose e con le persone, di empatia, di emozioni, di sentimenti, di tempo perso a pensare e ad
osservare la propria vita e quella degli altri, anzi, a rigor di logica, una comunicazione che non prevede un
interscambio reciproco di qualche entità fra l’emittente e il ricevente del messaggio non può
nemmeno essere considerata comunicazione in senso stretto. Quindi oggi l’intero sistema mediatico è
sostanzialmente al servizio non tanto di un’idea politica di parte quanto di una visione dell’esistenza
umana coniugata in due soli modi, produzione e consumo (“produci, consuma, crepa”, recitava
un’indimenticata canzone dei CCCP negli anni Ottanta). E per fare questo deve necessariamente ignorare tutto
ciò che non rientra in questa logica. L’autoreferente universo della merce e del denaro non può
semplicemente accettare l’idea di un cambiamento degli stili di vita e di un’evoluzione dei tempi
storici perchè conosce una sola e asfittica dimensione spazio-temporale, il presente. Un presente che deve
essere eterno, come eterni devono apparire i suoi carcerieri politici e intellettuali (ecco il vero significato
della "fine della storia", sbandierato con successo a destra e a manca all’inizio degli anni Novanta da uno
storico ottuso e disonesto come Francis Fukuyama!). In questo senso è un universo tendenzialmente totalitario
e antidemocratico come i suoi guardiani virtuali (e purtroppo anche reali). Allora mi è tornata in mente la
frase pronunciata pochi giorni prima della manifestazione dal giornalista Giulietto Chiesa in un incontro pubblico a
Pisa: “se accendete la tv o sfogliate i maggiori giornali italiani vi accorgete subito di una cosa, le notizie
del mondo non ci sono”. A questo pensiero paradossalmente mi sono rasserenato. Perchè ho capito che
ciò che ci propone tutti i giorni la televisione non è il mondo. E nemmeno una sua rappresentazione o
interpretazione. E’ semplicemente un’altra cosa e in fondo il modo per aggirare questo rumoroso muro
mediatico travestito da realtà non è difficile da attuare. Mentre il pippobaudo di turno cercava di
farmi ridere con l’ennesima battuta sugli italiani ho schiacciato il pulsante rosso sul telecomando e
l’immagine è scomparsa dallo schermo. Mi è parso anzi di notare una smorfia di disapprovazione
da parte del pippobaudo. E anche un sospiro di sollievo da parte della televisione (a volte anche gli apparecchi
televisivi hanno un’anima se li si educa bene). Quindi ho cenato e chiacchierato con Rosa (l’unica donna
in grado di sopportare i miei comizi domestici per più di cinque minuti senza accendere la tv) e me ne sono
andato a letto a leggere un bel libro (“Il té nel deserto” di Paul Bowles, per la cronaca). E
alla fine mi sono addormentato contento al ricordo della straordinaria giornata passata a Roma con tante persone
simpatiche e interessanti, e, soprattutto, vive. Subito prima di cadere nel sonno ho pensato però
un’altra cosa. Perchè spegnere solo le tivvù cazzarole e caciottare e riciclate e pataccare del
Presidente? Spegniamole tutte. Per sempre. O, almeno, un po’ più spesso. In fondo il mondo, quello in
cui viviamo e amiamo e ci incazziamo quotidianamente è molto più grande e infinitamente più
bello e interessante del Suo.