Le principali ragioni di questo fallimento sono due. In primo luogo l’impegno è stato concentrato sulle energie alternative anziché sul miglioramento dell’efficienza energetica, cioè su una scelta ideologica che costa di più e riduce molto meno le emissioni di CO2, anziché su una scelta basata sulla concretezza, che costa di meno e le riduce molto di più.
Un kW fotovoltaico di picco (cioè nelle migliori condizioni di insolazione) consente di ottenere circa 1.800 kWh all’anno. Poiché ogni kWh prodotto in centrale termoelettrica genera 700 grammi di CO2, ogni kW fotovoltaico fa diminuire le emissioni di 1.260 kg all’anno (1.800 kWh x 700 gr). Ogni kWh prodotto in cogenerazione ne evita 450 grammi, per cui per ottenere identici risultati occorrono 2.800 ore di funzionamento all’anno (un impianto di riscaldamento). La differenza è nel costo di installazione, che per i cogeneratori è di circa 2 milioni lire al kW, mentre per il fotovoltaico è di 20 milioni. Per aiutare il fotovoltaico, il Ministero dell’Ambiente ha varato il progetto "Tetti fotovoltaici" stanziando 1,2 miliardi per installarne 50 kW, da cui si dovrebbero ricavare 90.000 kilowattora annui di elettricità. Per ottenere la stessa produzione elettrica basta un cogeneratore da 30 kW che lavori 2.800 ore all’anno. Costo d’investimento: 60 milioni anziché 1,2 miliardi. Consumo di metano: pressoché equivalente a quello di una caldaia di pari potenza termica. Se la cifra di 1,2 miliardi venisse spesa in impianti di cogenerazione, si installerebbe una potenza di 600 kW, da cui si ricavano 1.680.000 kilowattora elettrici all’anno anziché 90.000. La riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe di 756 tonnellate anziché 63. Questo confronto non viene fatto per sostenere che si debba abbandonare il fotovoltaico a favore della cogenerazione, ma che non si deve abbandonare la cogenerazione a favore del fotovoltaico se si vogliono mantenere gli impegni assunti a Kyoto.
La seconda scelta sbagliata è lo sbilanciamento tra il comparto elettrico, che assorbe circa un terzo dei consumi di energia alla fonte e da cui si ipotizza di ottenere un contributo del 50 per cento alla riduzione complessiva delle emissioni di CO2, e il riscaldamento degli ambienti, da cui, a fronte di una incidenza pressoché identica sui consumi di energia alla fonte si calcola di avere un apporto di appena il 7 per cento, sebbene sia tecnicamente molto più semplice ridurre gli sprechi e i consumi a parità di comfort. Basta fare un confronto tra i consumi energetici degli edifici in Italia, Svezia e Germania. In Svezia lo standard per l’isolamento termico degli edifici non autorizza perdite di calore superiori a 60 kilowattora al metro quadro all’anno. In Germania le perdite sono mediamente di 200 kilowattora al metro quadro all’anno. In Italia raggiungono i 500. Se ci allineassimo agli standard svedesi il riscaldamento degli ambienti nel nostro paese scenderebbe dal 30 al 4 per cento dei consumi energetici. Se ci limitassimo agli standard tedeschi si ridurrebbe a circa il 12 per cento. Un programma nazionale finalizzato alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente non costerebbe nulla alla collettività, perché gli investimenti e i posti di lavoro verrebbero pagati dai risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici. I capitali necessari arriverebbero dalla riduzione della bolletta petrolifera e dal miglioramento della bilancia commerciale. E in ogni edificio ristrutturato si rispecchierebbe un pezzetto di cielo più pulito.