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Sommario:

  1. Editoriale
  2. Forum Sociale Europeo - Firenze Città aperta
  3. Ambiente
  4. Salute
  5. Guerra e Pace
  6. Diritti
  7. Aspettando

Aspettando

di

Virginia Greco

Quando la fantascienza racconta la fragilità dell’uomo e la finitezza del suo mondo.
Non so cosa stia succedendo. Stiamo aspettando. Attendiamo qualcosa, forse che qualcosa accada, o cambi. Non so alcunché di preciso. Non ce lo dicono. Siamo rintanati qui ormai da cinquantasette giorni. Occupiamo le nostre giornate con ogni genere di intrattenimento. Sono state sospese parecchie attività, per cui lavoriamo un numero molto ridotto di ore e possiamo goderci un invidiabile riposo con la nostra famiglia. La piccola Sophia è entusiasta: tutto ciò che sta accadendo la meraviglia, la affascina, le fa credere di star vivendo un’avventura. Già, l’avventura di vivere in un milioneottocentoquarantatre esseri umani serrati e stipati in un’unica struttura, senza mai uscire all’aperto. Glorioso, luccicante, osannato e riconosciuto successo dell’ingegneria futuristica, il quale, per quanto ampio, ricco di comfort e fornito dei più disparati sistemi e ambienti per il rilassamento, la cura del corpo e della mente o per il mero gaudente divertimento, rappresenta pur sempre un’enorme e sofisticata scatola per sardine, non in banale ed archeologica latta, bensi in acciaio, leghe di metalli dalle svariate qualità in campo di robustezza, resistenza agli agenti esterni, agli sbalzi di temperatura, alle anomalie gravitazionali e a tutte quelle cose strane che ogni tanto accadono e delle quali i notiziari ci mettono costantemente a parte, con sempre più parole e meno contenuti intelligibili ai più nonché resine, materie plastiche, vetro infrangibile e legno stupefacentemente sintetico, led, fari, fasci luminosi, cellule fotosensibili, sensori, radiazioni infrarosse, riconoscitori vocali, tattili e olfattivi prima o poi lettori del pensiero e scannerizzatori dell’anima, corporea o incorporea, che crederla si preferisca e non in ultimo luogo, fra tutto quel che si è citato e l’enormità di ciò che si è omesso per pigrizia, distrazione e ignoranza: appena distintamente evidenti lamine di titanio che portano impressi, a mero e generoso scopo informativo, i marchi delle fabbriche (volgarmente chiamate colossi produttori) dei componenti di questa ingegnosa, moderna e attraente confezione per materiale umano progredito – ancora degradabile ma con data di scadenza sempre più protratta nel tempo rispetto a quella di produzione – opportunamente pressato e pressurizzato.

Quindi mentre la piccola Sophia se ne sta nel giardino artificiale a giocare con i suoi coetanei, i quali condividono con lei uno stato di esaltazione e di meraviglia soddisfatta che li spinge persino ad accettare di buon grado il protrarsi di sporadiche, a dir il vero, attività scolastiche, io me ne sto qui in tranquillità a leggere dei buoni libri e ad interrogarmi su alcune piccole questioni quali il senso dell’esperienza, il legame tra la percezione sensoriale e la costruzione dell’idea, o che cosa diavolo stia per accadere o vorremmo che accadesse, o vogliono farci credere che accadrà là fuori e di che portata sia questo evento, se è tale da indurre il congresso superiore delle nazioni a decidere di mandarci tutti in una quasi–vacanza, imbottigliandoci in enormi container e proibendoci qualunque genere di contatto con l’ambiente esterno, il quale per ora sembra immutato sempre che non stiano proiettando filmati sulla superficie di uno degli otto strati di vetro infrangibile di cui sono forniti gli oblò.

Qualcosa di grande forse ci aspetta, qualcosa che avrà un enorme impatto con il nostro mondo e la nostra società. Forse la nostra vita sarà diversa a partire dal momento in cui il qualcosa là fuori, dallo sguardo del quale stiamo cercando di sottrarci chiudendoci nelle nostre tane metalliche, finalmente compirà il gesto epocale che ha previsto di compiere, quando finalmente ciò che deve essere accadrà. Noi qui dentro di certo tireremo un sospiro di sollievo. Probabilmente poi sarà il caos, il disorientamento, l’angoscia, lo sconquasso totale, l’ignoto, l’inizio di qualcosa di impensabile; ma se in quel momento quel qualcosa non sarà la fine di tutto, di sicuro ciascuno di noi, piccole sardine, farà passare l’aria attraverso le proprie narici e penserà: "Finalmente! Non se ne poteva più di aspettare!î"

Mi consumo dunque in questa attesa, senza avere dati sufficienti sulla base dei quali elaborare congetture e avanzare ipotesi a parte le eloquenti notizie diffuse dagli informatori ufficiali e riportate dai giornalisti con il medesimo linguaggio imperscrutabile, inattingibile, insindacabile, inaccessibile, iniziatico, profetico, prorompente e la stessa immancabile, imprescindibile, prodigiosa, premurosa, presaga, prevedibile, proditoria ricchezza di termini specifici e quanto mai peculiari delle scienze astronomiche, fisiche, astrofisiche, matematiche, probabilistiche, ingegneristiche e tecnologiche persino astrologiche per chi ama ancora mescolare concezioni fantasiose e fantasmagoriche alle già evidenti lacune cognitive e culturali in una meravigliosa appiccicosa calca di linguaggio mondiale, globale, moderno e futurista assolutamente ostica per la maggior parte della popolazione, la quale però spesse volte si accontenta di riempirsene le mani e la bocca non ammettendo, se non nella più assoluta delle intimità, di "non aver capito un accidenti di quello che sta succedendo o succederà".

La mia mente si prodiga per districare un tale coacervo di chiacchiere prive di contenuto e tecnicismi che di contenuto ne hanno persino troppo e fin troppo oscuro, ma non è che si possano capire cose che non vengono dette, senza contare le carenze culturali (ahimè!) in campo scientifico. E in questi frangenti che mi chiedo come sarebbe la mia vita se avessi deciso di entrare in politica o di studiare ingegneria. Il primo quesito viene liquidato molto presto: semplicemente la mia decisione sarebbe restata al suo posto e il diploma di laurea opportunamente arrotolato e infiocchettato avrebbe funto da rudimentale ma efficientissima cerbottana per maniacali giochi casalinghi (ai quali prima o poi nella vita tutti ricorrono per dare un senso alla propria giornata o, meglio, per smettere di chiedersi se il senso ce l’abbia e se sia poi necessario procurargliene uno). Perché? Politici si nasce. I miei natali si sono verificati sotto altri auspici (ignoti a dio, al demiurgo, all’essenza del mondo, all’organo supremo degli astrologi, all’immensità e all’eternità dellíuniverso, al big bang, ai premi nobel della fisica e, non in ultimo, a me):

Passiamo al secondo interrogativo. Devo ammettere che l’ingegneria ha suscitato in me sempre curiosità e interesse e, talvolta, ha esercitato anche una certa attrazione; non penso alla figura dell’ingegnere in sé, bensi ai campi conoscitivi ai quali si viene ammessi tramite lo studio delle discipline relative ad un corso di laurea in tale settore. Una serie di pensieri, vicende, coincidenze hanno programmato per me un indirizzo di studi del tutto diverso. Assai piacevoli, peraltro. Ma non è di questo che si discute ora. Fatto sta che io dell’ordine degli ingegneri parte non faccio, né tanto meno di quello dei dottori in fisica e matematica. Dunque, al di là di un certo interesse personale per le scienze e una curiosità nei confronti della conoscenza in genere, non ho sufficienti elementi per decifrare i discorsi dei miei stimati non colleghi per nascita politici e informatori delegati probabilmente messi a parte di determinate conoscenze scientifiche e soprattutto dei fondamenti o molto più dei trucchi dell’arte oratoria.

Guardando dall’oblò della mia stanza ammobiliata, profumata, areata e omologata un gruppo di astri, che sono più noiosi delle soap–opera in quanto non fanno mai qualcosa che non sia lo starsene lontani e immobili nel famigerato cielo delle stelle fisse, mi chiedo dunque "Perché non ho studiato ingegneria?". Dato che sono due ore e tre quarti che ci penso, mi rispondo ora prontamente: "Perché ci sono troppi ingegneri, quindi tale laurea non offre più lavoro”.

Cinquantasette giorni, ventuno ore e trentatre minuti che siamo chiusi sotto coperta, a detta del display elettronico (che si risparmia di fornirci i secondi) collocato sul mio letto (come sui letti di tutte le stanze qui dentro). Una bomba ad orologeria che procede al contrario e, quasi cinicamente, a tempo indeterminato. Chissà se poi si tratta davvero di cinquantasette giorni ventuno ore e trentaquattro minuti è scattato or ora – ?! Gli orologi e i timer della struttura sono controllati dalle sale comandi e tutti gli altri dispositivi in grado di calcolare l’ora non sono affidabili qui, infatti non sono più in uso da tempo. Potrebbe darsi che facciano scorrere il tempo più lentamente del solito, per farci apparire la nostra prigionia qui più breve di quanto non sia davvero. Reclusione per una colpa che nessuno di noi ha commesso. O che, in ogni caso, ignoriamo.

Attendiamo. In questa lunga, estenuante attesa, come nella sala per l’appunto d’attesa del dentista, mi capita di fare spesso un sogno, quando onirico, quando ad occhi aperti: essere in piedi sulla piattaforma a braccia divaricate, con il blu intorno. Intorno in ogni direzione. E la cosa che forse più mi manca della vita là fuori. Sentirmi li, nello spazio illimitato. È una sensazione meravigliosa. Quando non c’è altra gente, tutta la piattaforma metallica fra i vari agglomerati di edifici è sgombra di ogni forma vivente, ti puoi dirigere verso il lato sud e da li affacciarti sullo spazio vuoto e nero e ampio e intarsiato di stelle. Tu sei li, con un senso di angoscia e smarrimento che, nonostante l’abitudine, non smette di coglierti, di sorprenderti con l’universo negli occhi, di farti scorrere lungo la schiena un brivido. Vorresti chiudere gli occhi, farti piccolo, sdraiarti sul metallo ai tuoi piedi, facendo si che quanta più parte del tuo corpo possibile aderisca al suolo, vorresti tornare a pensare ai piccoli spazi, alle cose finite, alla vita limitata da piccolo essere vivente.

E invece resti li, in bocca al nulla, vittima di una forza agglutinante, affogato da quell’immensità che continua a forare la mente, a strozzarti lo stomaco, perché tu vorresti infilartela tutta dentro ma essa proprio non può starci, non ha proprio idea di cosa sia un dentro e tanto meno di cosa siano gli uomini.

Resti li e ad un tratto hai una sensazione di onnipotenza; l’angoscia perforante, il senso di debolezza, fragilità, inconsistenza che all’inizio ti ha portato a desiderare di non essere mai arrivato sin là, si trasforma in un vagheggiamento di dominio, in un sussulto, un impeto improvviso di grandezza. Nulla intorno, niente per milioni di chilometri, spazio, languore di terra, silenzio inimmaginabile, assenza di forme viventi. Tutto cosi immane, tutto li intorno, sotto i tuoi occhi, fra le tue braccia se le distendi e giri intorno, sopra, dentro quell’universo. Da lÏ, con i tuoi piccoli banali comuni organi visivi e le tue semplici dita attraverso cui farsi scorrere líaria rarefatta, hai, in un istante di sublimazione, l’impressione di avere tutta l’immensità che ti è intorno semplicemente aderente al tuo corpo, assurdamente oggetto del tuo pensiero nella tua mente. Ed è improvvisa gioia. Infantile, meravigliata e meravigliosa eccitazione. Ebbrezza impareggiabile.

Allora giù; ti sdrai supino, allunghi un braccio e con il dito puntato giochi a tracciare in aria i contorni delle zone colorate su quell’enorme sconosciuto pallone che hai davanti: il pianeta Terra.

Archivio (online o pdf):

  1. pdf L’Albero Pazzo 2
    Maggio 2002
  2. pdf L’Albero Pazzo 3 - 4
    Luglio 2002
  3. pdf L’Albero Pazzo 5
    Novembre 2002
  4. pdf L’Albero Pazzo 6
    Febbraio 2003
  5. pdf L’Albero Pazzo 7
    Aprile 2003
  6. pdf L’Albero Pazzo 8 - 9
    Luglio - Agosto 2003
  7. pdf L’Albero Pazzo 10 - 11
    Dicembre 2003
  8. pdf L’Albero Pazzo 12
    Settembre 2004