Legambiente critica il business delle acque minerali. Ma davvero
l’acqua minerale è meglio di quella che sgorga dai nostri rubinetti?
Più che in altri settori, nel mercato delle acque minerali, pubblicità è davvero la parola magica. Grazie
ad un bombardamento mediatico il consumatore è indotto a ritenere che acqua minerale in bottiglia significa bere
più sano e così scompare dalle mense degli italiani la brocca d’acqua di rubinetto, spesso di
qualità superiore e con meno controindicazioni di quella imbottigliata. Un consumismo sfrenato ha raggiunto anche
la sostanza primaria per eccellenza, quella "sorella acqua" senza la quale non si può vivere. Uno studio di
Legambiente diffuso in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua ha accertato che in Italia si consuma più
acqua minerale che in qualsiasi altro Paese del mondo: circa 170 litri pro capite l’anno. Il 35 per cento del
mercato totale nazionale si consuma al ristorante. Ma Altroconsumo, che ha condotto una ricerca accurata su 39 marche di
acque minerali vendute in Italia si chiede «perché pagare mediamente 330 volte di più un’acqua che
può essere anche peggiore di quella del rubinetto?». La risposta può essere quella indicata da
Legambiente che parla di «un business dell’acqua minerale che si regge su una totale carenza di informazione
e su una buona dose di pregiudizi». E ne smonta alcuni. «Non è vero che l’acqua in bottiglia è
più salubre perché le concentrazioni di sostanze tossiche e la frequenza dei controlli sono molto più
precisi e restrittivi per l’acqua di acquedotto». L’associazione ambientalista smonta anche
l’altro pregiudizio per il quale «l’acqua minerale ha meno sali di quella del
rubinetto». «Ciò è vero – dice Legambiente – solo per le acque "minimamente
mineralizzate", cioé quelle particolarmente leggere altrimenti tutte le acque di rubinetto sarebbero caratterizzate
come oligominerali (da 50 a 500 milligrammi al litro di residuo fisso)». Bere minerale è un lusso del primo
mondo specie se si considera che un miliardo e mezzo di esseri umani, il 25 per cento della popolazione del pianeta, non
ha accesso all’acqua. È un business per le multinazionali e le grandi società che controllano spesso, in
barba alla pura concorrenza, più marchi. La Mineracqua, federazione della Confindustria, in riferimento al 2001,
parla di un giro di affari di 2,84 miliardi di euro. Introiti da capogiro per le grandi aziende di imbottigliamento. In
Italia si contano circa 300 marchi per una produzione complessiva di oltre 9 miliardi di litri d’acqua dei quali
500 milioni destinato all’export soprattutto verso Germania e Francia. Di fronte a fatturati di questa entità
pochi sanno che le aziende di acque minerali pagano una miseria per lo sfruttamento delle concessioni minerarie
relative. Nel Lazio, dopo le denunce dell’opposizione, la Regione ha innalzato il canone dovuto per ogni ettaro di
concessione mineraria dalle 60mila a 100mila delle vecchie lire. Canoni esigui si pagano comunque in tutta Italia. In un
mercato dove è forte lo strapotere delle aziende per i consumatori affascinati dalla moda dell’acqua minerale
è necessario vigilare. «Da rivedere sono soprattutto i sistemi di etichettatura» spiega Anna Bartolini,
già rappresentante italiana nel Consiglio dei consumatori dell’Unione Europea. «L’Europa ha
infatti adottato di recente nuove normative – aggiunge – soprattutto in merito alle sostanze ammesse e sui
trattamenti prima dell’imbottigliamento e gli Stati si devono adeguare a tutela dell’utente». La
Bartolini si scaglia poi contro l’acqua cosiddetta "naturizzata" sempre più diffusa nei ristoranti. «Si
vende acqua addizionata a tre euro al litro. I clienti dovrebbero pretendere che gli si apra la bottiglia sotto il
naso».
da La Repubblica, gennaio 2003