Da questo numero
L’Albero Pazzo si trasferisce sul web e diventa un po’ più virtuale, ma non
meno ricco di articoli, saggi e riflessioni per orientarsi in questo mondo che dell’ambiente, della
solidarietà, della cultura e della pace sembra non interessarsi un granchè. Ciò che conta oggi, lo
sappiamo tutti, è il denaro al cui altare abbiamo sacrificato tutto. Ma il denaro, come dicevano i saggi indiani
Cree, non si può mangiare. Quindi rimaniamo ben saldi nelle nostre convinzioni ecologiste e pacifiste, gettandoci
leggeri in questo mare tempestoso che sembra non andare da nessuna parte, ma che offre spesso anche bellissimi paesaggi
fatti di umanità in lotta per la propria dignità e per quella delle generazioni future. Nonostante quindi
L’Albero pazzo non esista più sulla carta, la nostra piccola rivistina nata da un’idea
avventurosa del Circolo Legambiente di Pisa, non sarà meno ricca, anzi. Sebbene, lo sappiamo, internet non sia
accessibile a tutti continua comunque ad essere un mezzo che offre una libertà maggiore rispetto ai supporti
materiali più tradizionali. E poi, vediamolo anche dal punto di vista ecologista, consumeremo meno carta, il che
non è certo negativo.
L’Albero pazzo continuerà quindi a vivere come le cipolle che anche se
perdono la parte più superficiale continuano ad avere uno strato ancora più solido al loro interno. Insomma
avremo un
Albero pazzo libero come l’ex operaio che ha scritto il libro da cui abbiamo tratto la
citazione che segue. Libero come una cipolla.
Marcello Cella
"Si dice sempre che il tempo è denaro. Ma bisogna ricordarsi che l’equazione non è reversibile: il
denaro non è tempo. Il tempo è vita. Io decido dove investirla: nella pesca, nell’orto, al sindacato, in
famiglia. Questa è libertà. (…) I soldi sono necessari. Però è altrettanto necessario
stabilire ben presto quanti te ne servono. Se non sai quanti ne vuoi, non stabilisci il traguardo al quale
fermarti. Fatichi all’infinito. Questo comportamento dissennato lo vedi tanto nei ricchi quanto nei poveri. Anzi,
a ben guardare, mentre è chiarissimo perché un operaio si presenti puntuale in fabbrica tutti i giorni della
sua vita, non è affatto chiaro perché la stessa cosa la faccia il padrone. Perché una persona che si
ritrova i miliardi, anziché passare il resto della sua vita a mangiarseli allegramente, scremando il grasso degli
interessi dal brodo del capitale, si mette in testa di costruire una fabbrica, di assumere operai rompiscatole, con
tutte le noiose grane di produzione, di rapporti e di mercato che seguono? Mi rendo conto che può sembrare
paradossale, ma ho la sensazione che nei ricchi il disturbo sia più evidente. Arraffano ingordamente danaro come se
dovessero vivere in eterno.
L’accumulazione capitalistica nella quale comodamente campiamo si regge su una svista: padroni e operai desiderano
all’infinito quanti più soldi possono perché non si sono chiariti preventivamente quali sono i traguardi
che desiderano veramente raggiungere: i bisogni umani per quanto grandi sono limitati perché limitata è la
vita. I propri bisogni ognuno li stabilisce autonomamente. Una volta raggiunti i mezzi necessari ad appagarli, logica
vorrebbe che si smettesse di accumulare. Bisogna fissare la cifra che si ritiene necessaria. Teniamoci pure larghi, ma
fissiamo una cifra. Una volta raggiunta, si stacca. Solo così si pone un limite all’accumulazione. Chi non ha
il senso del limite, non ha il senso della vita. I ricchi accumulano all’infinito furiosamente perché non
hanno il sentimento della morte. Si comportano come se fossero eterni. Questa è la svista su cui sembra reggersi il
capitalismo. I rampanti ossessivi sono solo degli sbadati."
Da: "Cipolle e libertà. Ricordi e pensieri di Gelmino Ottaviani operaio metalmeccanico alla soglia della
pensione"
a cura di Federico Bozzini
Edizioni Lavoro, 1993