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Sommario:

  1. Editoriale
  2. Il viatico
  3. Conflitti
  4. Bambini
  5. Stili di vita
  6. Cibi
  7. Terra, Acqua, energia
  8. Speciale Meeting di San Rossore sui cambiamenti climatici, luglio 2004
  9. Media
  10. Campagne e movimenti
  11. Diritti
  12. Culture
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Globalizziamo la lotta e la speranza. Un reportage dal World Social Forum di Mumbai

di

Leonhard Shaker

Immagine: Movimento 'No Global War' Dopo il Forum Sociale Europeo a Firenze del novembre 2001 Marcello Cella scrisse: “Il sole anche di notte”. e anche quest’anno al World Social Forum di Mumbai (Bombay) dal 16 al 21gennaio c’erano non soltanto il sole anche di notte, ma anche musica, danze, colori, feste, dimostrazioni. Perché Woodstock 2004? Woodstock nel ‘68 è stato il culmine e la svolta della musica e della contestazione. Un giornale, credo Il Manifesto, esprimeva prima del WSF la sua preoccupazione che questi forum diventassero come Woodstock oppure eterni dibattiti senza esito concreto. Non ho niente contro il confronto con Woodstock 1968 e 2004, anzi. Qualcuno scrive già della “svolta” di Mumbai.
Ma come sono andate le cose?

Questo è un racconto molto personale, perché ciascuno ha vissuto naturalmente il “suo” WSF. Il motto che gli organizzatori hanno dato al forum è stato: “Another world is possibile. Let’s build it.”Un’altro mondo è possibile. Costruiamolo!” Ho visto uno striscione con questa scritta davanti ad una chiesa cristiana venendo dall’aeroporto. Ma per il resto, quasi niente striscioni nel centro di Bombay e la stampa indiana ha incominciato cautamente a scrivere dell’evento soltanto qualche giorno prima dell’inizio. Ed il governo di destra del Maharastra, lo Stato in cui si trova Mumbai-Bombay si è mostrato ostile e diffidente nei confronti dell’evento che aspettava 100.000 aderenti.

Ma torniamo alla “mia Bombay” dove ero già stato due volte nel passato. Anche questa volta ho vissuto dal mio amico indiano a Churchgate nel Sud della metropoli. Così avevo ogni giorno un bel viaggetto da fare in treno dalla stazione di Churchgate a Goregaon nel Nord, una bella esperienza di ca. 50-60 minuti con il treno locale in seconda (biglietto per 18 centesimi). Alla fine schiacciati più o meno come le aringhe e con fatica si riusciva a scendere (o diciamo saltare). Vedere il “trainspotting” di alcuni indiani mi dava i brividi. Dalla stazione di Goregaon prendevo uno rikshaw per 10 minuti fino al Nesco Ground. Quando i rikshaw drivers avevano capito aumentavano notevolmente (per livelli indiani ) i prezzi o si rifiutavano addirittura la sera di portarci indietro alla stazione se non pagavamo il triplo. Ma alla fine abbiamo capito l’andazzo con i treni accelerati. Già di buon mattino si intravedevano i pendolari del WSF riconoscibili con i loro cartellini e ci salutavamo in tante lingue. Ho così saputo che era conveniente scendere una stazione prima.

Ma io volevo parlare del Forum.

Venerdì 16, apertura: dove 5 giorni prima c’era soltanto una struttura marginale per le fiere, i tanti volontari indiani ed internazionali avevano costruito tende, stand, capannoni con bambù. Ricordo davanti all’entrata lo striscione in varie lingue: “un altro mondo possibile“ e, a fianco, quello del partito Comunista Indiano (ce ne sono almeno 2 grandi). Stringiamo le mani per rendere possibile un mondo comunista. Un po’ di difficoltà all’iscrizione e poi non ci sono piantine degli eventi (ma ciascuno ha carta e penna) e non c’è ancora il programma stampato:…magari domani. Ma se non siamo riusciti a scaricare tutto da internet? Pazienza. E poi l’apertura sul campo sportivo: colori, bandiere, striscioni, tamburi: arriva una fiumana di tante razze, naturalmente tantissimi indiani (arrivano le carovane dei movimenti indiani partiti 2 o 3 settimane prima da tante parti del subcontinente).

E sul podio subito all’inizio una banda musicale di questi movimenti e la favolosa rock-band Junoon del Pakistan. Nei discorsi inaugurali parole molto chiare contro la guerra, l’imperialismo americano, il guerrafondaio Blair ed il neoliberismo da parte della rappresentante indiana del comitato organizzatore, da un rappresentante irakeno, da Mustafa Barghouti per la Palestina, Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace. Arundhati Roy (Il dio delle piccole cose), bella, concreta, chiara: “noi siamo in guerra. Bush crede che un suo mondo sia possibile, un secolo americano, un nuovo imperialismo, ma siamo noi che costruiamo un altro mondo. E’ ora di fare delle cose concrete: sosteniamo la resistenza nell’Irak, boicottiamo 2 multinazionali americane che stanno guadagnando con la guerra in Irak (Bechtel e Halliburton)!”.

La prima sera, una grandissima festa e manifestazione.

Il giorno successivo incominciano i panels e dibattiti… e la ricerca dello tendone giusto. Ho assistito al dibattito dei “Grassroots - global justice”: espressione soprattutto americana delle minoranze etniche: “gente comune di base” anche di una certa età, molto combattiva. Il titolo del dibattito: “il nord globale incontra il sud globale”. Presente un indiano Dakota che sembrava il fratello dell’attore di “Qualcuno volò sul nido del cuccolo”.

Poi mi sono spostato all’incontro di “transform” della sinistra radicale e antagonista europea. C’è stato sempre l’imbarazzo della scelta tra i vari eventi. Successivamente ho attraversato la strada per partecipare al “Mumbai Resistence 2004”, il “controforum”, ossia l’assemblea dei più radicali (la maggior parte indiani, qualche rappresentante europeo di partiti e partitini di estrema sinistra.) per i quali il tenore del WSF ufficiale è troppo conciliante e diplomatico: “Come possono unire e guidare il movimento globale contro il capitalismo con questa struttura e leadership attuale?”, dicevano. Gente povera ed organizzazione povera, ma compagni in gamba, qualcuno sogna la Quinta Internazionale. Peccato che ci sia stata questa frattura. Loro erano gli esclusi, gli intoccabili del WSF. E alla loro manifestazione finale nel cuore di Mumbai sono stati attaccati fisicamente dal Partito Comunista Indiano, molto ortodosso. Ho assistito al loro dibattito sul ruolo della classe operaia nella lotta contro la globalizzazione e la guerra imperialista, presenti - oltre a rappresentanti indiani sindacalisti e marxisti - anche rappresentanti della Turchia e delle Filippine. Anche qui ho imparato il valore della parola “compagno” (comrade).

Nel frattempo, le vie del Nasco Ground del WSF ufficiale si affollavano di gruppi di un fiume di etnie, colori, tamburi, slogan un via vai permanente con qualche sosta alla piazzetta per il teatro e le danze e nel campo dell’apertura. Qui si è svolto il vero WSF: il WSF della base e dei popoli, gente comune, indiana soprattutto, partecipanti alle marce contro la privatizzazione dell’acqua e lo sfruttamento delle terre, i parenti della strage del Gujarat (contro gli islamici del 2002), tante, tante donne. E qui abbiamo conosciuto la situazione dei dalit, gli intoccabili, che con tanti altri oppressi per la prima volta sono riusciti ad esprimersi. Loro e le donne si esprimevano soprattutto danzando nel campo (Molto bello l’incontro delle donne in nero e della marcia mondiale delle donne). Strada facendo, hanno guadagnato forza, scandivano i loro slogan per le strade del Nasco Ground, battevano i loro tamburi che si sentivano durante i panel e i dibattiti ufficiali. A questa kermesse sociale, culturale e politica indiana si associavano i tibetani, i sudcoreani (forse i più agguerriti e combattivi del forum). Anche i giapponesi e tailandesi, combattivi, si intravedevano loro ed i sudcoreani soprattutto nei seminari organizzati dal “Socialist Worker “ della Gran Brettagna, e dagli “International Socialists” con il motto: globalize resistence! Un po’ accademico, prima del dibattito, il seminario: “Quanto radicale dovrebbe essere il movimento?”. Più concreto, soprattutto per il mondo asiatico, il meeting su: “Rivoluzione nel 21° secolo”. I giapponesi usavano molto nei dibattiti il linguaggio del corpo, tanto che temevamo una volta che il ragazzo giapponese contrario alla dichiarazione ufficiale di un relatore inglese, lo picchiasse. Poiché ho molto frequentato questi workshop e ho anche partecipato ai dibattiti, un partecipante indiano mi ha visto per caso alcuni giorni dopo sulle strade di Mumbai salutandomi: “Hey, communist!”.

Man mano anche i “bianchi” partecipavano alle marce dei dalit, delle donne e delle minoranze imparavano e scandivano “Sindabad, Sindabad” (Viva). Feste e dimostrazioni permanenti, grida contro lo sfruttamento della terra, dibattiti, mini meeting e discussioni tra europei e indiani, americani e asiatici, scambi di e-mail e biglietti da visita (un po’ una mania indiana). Questa era la musica nuova del WSF dopo quelli di Porto Alegre e l’ ESF di Parigi.

C’erano altri panel, ossia mega assemblee, che vedevano partecipanti provenienti da Attac ai comunisti, dai verdi ai religiosi, dai pacifisti alle organizzazioni femminili con temi attualissimi sulla globalizzazione. Relatori illustrissimi. Nel panel: ”I partiti politici ed i movimenti” con un Fausto Bertinotti molto chiaro: “I comunisti del mondo devono fare i conti con gli errori della loro storia…Questo movimento può restituire un significato universale alla parola rivoluzione…”. E’ stato il primo a dire ufficialmente: “Abbiamo imparato molto dai dalit. Una Aruna Roy (non Arundhati) molto brava: rappresentante delle lotte sociali, sindacali e culturali nel Rajasthan, ha fondato i college a piedi scalzi, una delle strutture indiane di spicco che combatte per la trasparenza delle informazioni. Nel convegno, “I diritti umani per il cambio sociale”, vicina alla elegantissima presidente di Amnesty International, la pakistana Irene Khan, la minuta e modesta Shirin Ebadi, tanto poco appariscente che qualcuno del servizio d’ordine non voleva lasciarla andare sul podio alla festa inaugurale. “Globalizzazione e Sicurezza Sociale ed Economica”: un po’ deludente l’intervento del tanto aspettato Nobel per l’economia Joseph Stiglitz. (Ma scrive molto bene, vedi: Globalization and its discontents). Invece Samir Amin, come a Firenze nel ESF, è molto chiaro: il capitalismo si può combattere e sconfiggere. Bravissimo anche l’economista principale dell’India: Prabhat Patnaik.

Onde evitare che questo diventi un elenco invece di un racconto, aggiungo soltanto il bell’incontro con il gruppo pacifista israeliano–palestinese dell’Alternative Information Center con Michael Warschawski: gente in gamba che non ha vita facile in Israele e nei territori occupati.

Nel Panel finale: il futuro del WSF. Vittorio Agnoletto ci aveva già informato nell’incontro serale del gruppo italiano (eravamo 110, probabilmente la delegazione italiana contava 130 persone) che sono previsti WSF biennali in Europa, Asia, America, con dei temi concreti. (Il prossimo WSF comunque sarà di nuovo a Porto alegre, quello del 2007 probabilmente in Africa). Sul podio il dibattito: il WSF deve rimanere uno spazio di dibattito ed una piattaforma o ci vuole più struttura e concretezza? Perché non chiudere con una agenda concreta come ha proposto Arundhati Roy? Poi c’è il discorso della rappresentazione: sul podio tanti bianchi, una donna rappresentante del forum indiano ed una sudcoreana, un rappresentante dall’Africa. Rimane la questione dell’oligarchia e del coinvolgimento attivo dei “peones”.

Mi sono permesso di passare un biglietto a Chico Whitaker: Ma anche i partecipanti possono dire qualcosa? E ho fatto un intervento-confronto con le caste indiane: sul palco i rappresentanti del consiglio internazionale del WSF, i brahmini, noi in platea, i guerrieri o i mercanti, fuori, sulle strade e all’altra parte della strada i dalit. Oggi come oggi, con le tecniche dell’open space sarebbe possibile una maggiore partecipazione attiva ed il coinvolgimento dei partecipanti. Questo e altre questioni di democrazia diretta e di azioni concrete per il post forum sarebbe nella lista delle cose da approfondire dopo questo WSF.

Dopo il mio intervento viene qualcuno a salutarmi. Sul suo cartellino c’è scritto: Paolo India. Ma mi saluta in italiano: è un giovane frate di Reggio Emilia, che lavora alla Casa della carità a Mumbai, un istituto per handicappati. Da 3 anni e mezzo non torna a casa e spera di riuscirci tra sei mesi. Molto calmo, modesto, ha già assunto il linguaggio del corpo e la comunicazione non verbale degli indiani. Questi sono i veri combattenti, ho pensato, forse vergognandomi un po’.

Poi la marcia e la chiusura del WSF sul Campo Azad. Ci siamo ritrovati più o meno tutti su un campo nel centro di Bombay e da qui è partita la marcia, che è durata 3 ore, per le vie della città fino al campo vicino alla Victoria station. All’inizio i gruppi erano divisi secondo la provenienza o il credo. Noi di Rifondazione portavamo uno striscione grande con il nostro simbolo e la scritta: no global war, le nostre bandiere del PRC e qualche bandiera della pace. Dietro di noi un gruppo di una organizzazione dalit molto combattiva. Sono iniziati gli slogans: Tony Blair, down down! Bush, Bush, murdabad, murdabad ! (abbasso). WSF sindabad, sindabad! Qualcuno urla: Berlusconi murdabad! Cantiamo l’”Internazionale” in 10 lingue, partiamo noi con “Bella ciao“ che viene seguita da “Bandiera Rossa”. Poi le grida: “No war, no war!” Verso la fine della marcia, dietro il nostro striscione c’era l’“Internazionale WSF”: dalit , donne indiane, ragazze palestinesi ed israeliane, gli indiani che portavano la nostra bandiera, proprio bello. Lo slogan: un pueblo unido jamas sarà vencido!

Immagine: Movimento 'No Global War' La conclusione sul Campo Azad: rockband e folklore dal Pakistan e dal Camerun, gli speakers ufficiali: la pakistana Asma Jehngir (di grande valore simbolico, tenendo conto delle tensioni tra i due stati), e un’altra volta il gruppo pakistano Junoon, che viene applaudito con tanto calore, l’ex presidente della Repubblica Indiana Narayanan, l’ex vicepresidente della Repubblica del Vietnam Madame Nguyen Binh. Un altro relatore ci invita a “globalize the hope!” e parla degli “United Snakes” (i serpenti uniti) invece degli United States. Poi Gilberto Gil, cantautore e ministro della cultura nel governo Lula: canta magnificamente, fra l’altro, una canzone composta per il WSF: “Social movements”. Giovani e meno giovani incominciano a ballare, la gente si stringe o fa girotondi. Un momento magico quando canta “Imagine”. Vedo qualche lacrima. E alla fine la famosa jazz folk band indiana: Indian Ocean.

Vicino a me un indiano anziano, vestito molto modestamente. Si presenta: è un sindacalista e compagno proveniente dal Bihar, lo stato probabilmente più povero dell’India. Parla un ottimo inglese e mi racconta un po’ della sua vita. Condivide con me le poche banane che ha e mi regala un dolce del suo paese, che toglie dalla carta di un giornale. Quando ci salutiamo a tarda sera, gli regalo la bandiera del nostro partito.

Un giornale indiano ha scritto il giorno dopo: “Sono venuti da 130 paesi, hanno discusso e gridato, tornano polverosi e stanchi e sono cambiati”.

Un racconto un po’ emozionato? Forse, perché sento ancora “sindabad! murdabad!” nelle mie orecchie. E quando ascolto i cd degli Junoon e degli Indian Ocean, sono ancora lì: Salam Bombay!

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