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Sommario:

  1. Editoriale
  2. Il viatico
  3. Conflitti
  4. Bambini
  5. Stili di vita
  6. Cibi
  7. Terra, Acqua, energia
  8. Speciale Meeting di San Rossore sui cambiamenti climatici, luglio 2004
  9. Media
  10. Campagne e movimenti
  11. Diritti
  12. Culture

L’impossibilità di crescere. Due o tre cose sul cinema di Massimo Troisi

di

Marcello Cella

Riproponiamo un articolo sul cinema di Massimo Troisi pubblicato nel 1994, subito dopo la sua scomparsa, sul settimanale "Il Mucchio Selvaggio". In ricordo di un grande uomo di cinema che ci mancherà ancora per molto tempo.
Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi

"È come se Camillo volesse chiedere con il corpo qualcosa che non riesce a chiedere con le parole" (da Le vie del Signore sono finite)

È difficile credere alla scomparsa di Massimo Troisi. Se non altro perchè nel suo breve ma significativo percorso cinematografico Troisi era morto già due volte. Nel 1982 dopo il clamoroso successo di pubblico di Ricomincio da tre,, quando Troisi rispondeva all'assillante pedanteria di quanti premevano perchè producesse velocemente una seconda opera di successo (magari fotocopia del primo film) con Morto Troisi, viva Troisi, realizzato per RAI 3, in cui il cineasta napoletano, nell'ambito di una serie di trasmissioni sui cosiddetti 'nuovi comici italianì, non trovava di meglio, per parlare di sè e del suo lavoro, che mettere in scena la propria morte creando una specie di fittizio documento postumo. E l'anno successivo con No, grazie, il caffè mi rende nervoso di Lodovico Gasparini in cui Troisi veniva ucciso, legato e soffocato da un pezzo di pizza dentro la cassa di una pianola ambulante, da un maniaco della napoletanità e delle sue tradizioni che, sbarazzandosi di lui, voleva colpire la 'nuova Napolì. E del resto tra la fine dei confusi ma vivaci (tutt'altro che plumbei) anni Settanta e l'inizio degli ambigui e patinati anni Ottanta pochi come lui avevano saputo interpretare il rinnovamento morale e culturale (non ancora politico e sociale) del Meridione. Il suo cinema, come la musica meticcia di Pino Daniele, il teatro apolide di Mario Martone e del suo Falso Movimento o di Carlo Cecchi, l'ironia bonaria dei varietà di Renzo Arbore, solo per citare i nomi più noti, aveva contribuito infatti alla definitiva messa al bando di un'immagine falsa e convenzionale di Napoli, sempre vista e rappresentata nei suoi aspetti più beceri e folcloristici (quelli che, per intenderci, ancora impazzano nella cultura leghista) e mai nella sua ricca e complessa realtà culturale.

Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi Immagine: Massimo Troisi

Ma sarebbe riduttivo parlare di Troisi solo riferendosi alla sua 'napoletanità', perchè il suo cinema e il suo teatro andavano ben al di là di questi confini un pò angusti. L'inquietudine dei personaggi che portava sulla scena, le frasi smozzicate, i discorsi lasciati a metà, la gestualità inconsulta ci parlavano anche di una generazione e di una cultura giovanile che, uscita dai fervori ideologici, non aveva ancora deciso cosa fare di sè stessa. Così si spiega anche il successo di quel suo primo film, Ricomincio da tre, opera spiazzante nel suo candore, con quel Gaetano in fuga dall'oppressione avvolgente delle tradizioni familiari e della 'napoletanità' ("Non sono un emigrante, sono venuto via da Napoli per viaggiare, per conoscere", ripete più volte nel corso del film) e dalla necessità di scegliere, di definirsi, in una Firenze notturna e periferica il cui grigiore non prometteva comunque granchè di buono. Il senso di tutta la sua opera è già tutto contenuto in questo primo film, in questo ritagliarsi ostinatamente personaggi che facevano della fuga dalle scelte, dai ruoli sociali predeterminati e da rapporti interpersonali vampireschi un modo di vivere, una contorta strategia di sopravvivenza. E quando fuggire non era più possibile i suoi personaggi non rinunciavano mai comunque a scartare di lato, a deviare da tutto ciò che si imponeva come ineluttabile, anche a costo di ammalarsi. Una malattia che diventava proiezione somatica di un disagio interiore, di un'impossibilità viscerale di definire, limitare, codificare, scegliere, crescere da parte di personaggi che non volevano perdere il gusto di inventarsi la vita giorno per giorno senza programmare percorsi esistenziali che dovevano apparirgli come delle insopportabili camicie di forza. Così nascono i malesseri fastidiosi del Vincenzo di Scusate il ritardo, o la paralisi del Camillo di Le vie del Signore sono finite. Perchè programmare significa strutturare, chiudere e Troisi non riusciva a farlo. Si spiega anche così quella certa svagatezza, quel sapore apparentemente dilettantesco dei suoi film che hanno fatto spesso gridare i critici all'inconsistenza narrativa. Perchè, come Moretti, Troisi non voleva raccontare ma semplicemente mettere in scena, comunicare direttamente i propri sentimenti, senza la mediazione fittizia e ingannevole di un racconto che avrebbe contribuito a confondere, depistare gli spettatori. Ed è curioso pensare che i due maggiori autori del nostro cinema attuale siano cineasti che hanno fatto del non-racconto, del disagio interiore esibito in forme verbali ceh eludono la strutturazione linguistica in parole e frasi per tornare ad essere voce, suono primario non strutturato, della apparente povertà e imperfezione delle immagini, mai lussuose e sovraccariche, e della malattia, sperimentata direttamente su di sè, sul proprio corpo-cinema, una cifra stilistica. Forse perchè mettendo in scena la propria malattia, il proprio disagio è più facile comunicare la propria radicale inadeguatezza ad aderire ai valori di una società, questa si, malata di false certezze, di miracoli. In questo senso Troisi ci apparteneva profondamente, in quei suoi film che rifuggivano l'immagine cartolinesca, i bei panorami, come la peste, tanto da rinchiudere i suoi personaggi in spazi angusti o in esterni anonimi, spesso grigi e piovosi. In realtà tutto il suo cinema è stato un vero e proprio inno all'amore e alla vita, alle sue potenzialità di sperimentazione, alle sue inusitate aperture. Fino alla fine. Fino a quel suo ultimo film, Pensavo fosse amore invece era un calesse in cui per la prima volta tentava di interpretare un personaggio costituzionalmente più definito, Tommaso, che ha persino un lavoro ed è ad un passo dal matrimonio. Ma quando la trappola silenziosa dei ruoli sociali sta per chiudersi su di lui, Tommaso/Troisi scarta nuovamente di lato. Il meccanismo va in tilt ancora una volta e la morte dei sentimenti che gli si presentava come destino è costretta ancora una volta a rifare i propri conti. Mentre Tommaso/Troisi può ricominciare a parlare d'amore e a sognare. Un amore diverso. Una vita diversa.

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