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Sommario:

  1. Editoriale
  2. Il viatico
  3. Conflitti
  4. Bambini
  5. Stili di vita
  6. Cibi
  7. Terra, Acqua, energia
  8. Speciale Meeting di San Rossore sui cambiamenti climatici, luglio 2004
  9. Media
  10. Campagne e movimenti
  11. Diritti
  12. Culture
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Gli iracheni sono stufi di morire; di Paola Gasparoli della ONG "Un Ponte per Bagdad"

a cura di

Marcello Cella

Il 25 aprile scorso è stata una giornata un po’ speciale per l’associazionismo pisano. Infatti durante l’intera giornata le iniziative canoniche organizzate da molte associazioni hanno avuto come ospite Paola Gasparoli della ONG "Un ponte per Bagdad", una struttura che lavora da molti anni in Iraq con progetti di sostegno e di solidarietà alla martoriata popolazione irachena. Paola ha partecipato alle varie iniziative raccontando le cose che ha visto in Iraq durante questi mesi di permanenza prima della forzata partenza, alla metà di aprile, a causa del crescente pericolo anche per chi opera nella cooperazione internazionale. E ha raccontato con la passione civile e l’emozione di chi ha vissuto la situazione irachena rischiando ogni giorno la propria vita per continuare ad aiutare con i pochi mezzi a disposizione la popolazione civile, la più colpita dalla guerra. L’abbiamo incontrata al dibattito organizzato da Rete Lilliput, WWF e Legambiente all’Agrifiera di Pontasserchio. L’intervento di Paola è diviso in due parti. La prima parte è una sintesi cospicua del suo intervento durante l’iniziativa pubblica, mentre la seconda parte è costituita da una breve intervista realizzata successivamente all’evento.

"Al momento in Iraq la situazione è quella dell’occupazione, l’Iraq non si sente liberato. Si è forse sentito liberato nei primi mesi, si è forse sentito liberato perché non c’è più Saddam. Ma dalla caduta di Saddam all’occupazione il passo è stato brevissimo e l’occupazione non è un’occupazione che la popolazione non sente, è un’occupazione quotidiana, pesante. Pesante per la qualità della vita. Non c’è corrente elettrica a Bagdad se non per tre ore al giorno. C’è un po’ si ed un po’ no nelle aree fortunate. La gente che ha i soldi ha il generatore, ma la stragrande maggioranza della gente non ce l’ha, quindi rimane con le candele. In alcune zone non c’è acqua e l’acqua non è tra le più potabili che possiamo immaginare. Ma l’occupazione ha anche un peso in morti, morti civili. Io sono arrivata a fine agosto del 2003 per lavorare ad un progetto riguardante un centro di monitoraggio dell’occupazione fondato e finanziato da alcune organizzazioni internazionali. Ad un certo punto mi sono resa conto che passavano solo i morti americani, con un conteggio che sembra preciso, ma non lo è. L’America scoprirà solo più avanti che cosa è stata questa guerra in termini di vite umane, di feriti e di condizioni psicologiche dei soldati che torneranno a casa. Perché sappiamo quelli che muoiono durante un attacco, ma non si sa mai nulla dei feriti, se rimangono vivi o se muoiono, non si sa di tutte le mutilazioni dei soldati. Moltissimi stanno tornando senza gambe, senza braccia, moltissimi sono in trattamento psicologico, moltissimi sono stati quelli allontanati dall’Iraq per motivi psicologici, moltissimi sono i suicidi, molti sono i soldati che sono tornati in America per un periodo di riposo e si sono imboscati, non si sono ripresentati, e moltissimi sono in fuga dal paese attraverso il confine. Sembrava poi che gli iracheni morissero solo ed esclusivamente per gli attentati terroristici. Ma gli iracheni muoiono quotidianamente per le reazioni dei soldati americani. Su questo tema abbiamo deciso di aprire un’inchiesta, di cominciare a spiegare come è la situazione e se è possibile per gli iracheni avere una forma di indennizzo, quando sono i figli, i mariti, le donne ad essere uccisi o gravemente feriti, quando le case vengono distrutte durante i tentativi di arresto. Infatti spesso le case vengono schiacciate dai carri armati, che si muovono in fretta in una città di otto milioni di abitanti, bloccata perennemente dal traffico; loro arrivano in fretta, non si devono fermare, sia per le regole di ingaggio, sia perché hanno paura.

(…) Abbiamo scoperto uno dei tanti tasselli dell’occupazione, e cioè che tutta la gente appoggia moralmente, se non attivamente, la resistenza o le reazioni del leader radicale sciita Moqtada Al Sadr. Gli americani quando si muovono nella città e appena succede qualcosa, indipendentemente dal tipo di incidente, la loro reazione è sparare, perché sembra che questa sia una delle segretissime regole di ingaggio dei soldati americani: ogni qualvolta vi sentono in difficoltà, in pericolo, ogni volta che sono attaccati, aprono il fuoco. Questo indipendentemente dall’azione di attacco: per cui anche se la bomba al lato della strada è telecomandata o se chi ha attaccato l’unità è già scappato si spara lo stesso. In questo tipo di risposta militare, il cento per cento delle volte sono i civili che rimangono uccisi. Gli esempi sono tanti: una volta c’erano due carri armati in coda per il traffico, un ragazzino velocissimo arriva, si arrampica sul secondo carro armato, butta dentro una granata e si allontana di corsa; dopo un tre–quattro minuti, anche se era impossibile arrestare o uccidere il ragazzino, l’unità spara su un mercato, poi spara su un parcheggio. Una bambina di sette anni e un uomo di 37 rimangono uccisi in un’esplosione. Notate bene che nel mercato non potevano neppure vedere cosa stava succedendo, hanno sentito l’esplosione, ma le bancarelle del mercato impedivano la vista, quindi non hanno fatto in tempo a nascondersi, a cercare un riparo. Un altro bambino di quattro anni è rimasto gravemente ferito mentre un gruppo di mezzi corazzati scendevano da un cavalcavia. Sopra il cavalcavia c’era un campo di calcio, con una partita in corso. Il papà e il bambino decidono di salutare i parenti, erano lì in visita, quindi si allontanano dal campo, aspettano un taxi, e mentre i carri armati scendono dal cavalcavia, un esplosivo comandato a distanza esplode. Non muore nessun soldato, ma loro escono dai mezzi e sparano: colpiscono il bambino con un proiettile alla testa, impossibile da rimuovere negli ospedali di Bagdad. Il bambino è rimasto semiparalizzato, senza vista da un occhio e senza udito da un orecchio. Ma gli esempi sono tantissimi. Gli iracheni per denunciare queste cose alle autorità americane, che ovviamente hanno messo in piedi un sistema formalmente legale, si devono recare alle quattro del mattino in una base militare, devono mettere il loro nome sulla lista, aspettare fino alle 8.30-9.00, e quando gli va bene sono accolti all’interno dell’ufficio, all’interno di questa base militare, davanti ad un avvocato che è un avvocato militare. In molte basi non entri, per ragioni di sicurezza, e aspetti fuori, ma fuori si rischia di rimanere sotto il fuoco della resistenza, perché è una base militare, quindi i civili sono ulteriormente esposti al pericolo. Il sistema messo in atto è tale per cui le più grosse violazioni, i più grossi casi non possono essere compensati. Perché puoi presentare domanda di compensazione unicamente per casi accaduti dopo il primo maggio 2003, cioè quando il massimo combattimento è stato dichiarato chiuso. Mentre invece secondo molti analisti la guerra è cominciata proprio il primo maggio. E quindi non c’è possibilità per loro di avere un rimborso. E per molti iracheni l’importante non è il dato economico, anche se in Iraq, che viaggia tra il cinquanta e il settanta – ottanta per cento di disoccupazione il rimborso economico può avere il suo peso, ma il riconoscimento di una colpa, il riconoscimento di un errore. Loro si sentono sempre perennemente umiliati e offesi nella loro dignità, e gli iracheni hanno un forte senso della dignità. La loro dignità viene calpestata ogni qualvolta i soldati americani entrano nelle case per arrestare i componenti di una famiglia, entrano di notte o di mattina molto presto, in zone solitamente dove non c’è corrente elettrica, illuminano la scena con le torce dell’elmetto, che permette la vista soltanto a loro, non essendo una torcia che illumina tutta la stanza, con la faccia viola. Arrivano urlando, alcune volte gli iracheni pensano che siano criminali, banditi che cercano di entrare nelle case, quindi prendono le armi e cercano di difendersi, e la reazione immediata è che l’americano spara. Oppure non si arriva a sparare, ma si arriva ai pestaggi, di fronte a tutta la famiglia, di uomini anziani, di uomini giovani. Solitamente le donne vengono o sbattute in strada, senza darle il tempo di mettersi il velo, di togliersi gli abiti di casa per coprirsi. Vengono spesso e volentieri interrogati i bambini, bambini di quattro, cinque, sei, sette anni, mitra in mano, con arroganza e urlando con violenza: "dimmi dove papà nasconde le armi, dimmi dove papà nasconde l’esplosivo!!". E molti di questi blitz non sono fatti su prove reali, cioè gli americani non vanno in quella casa perché sono sicuri che in quella casa ci sia un membro della resistenza o un compagno di regime di Saddam. Essi si muovono soprattutto seguendo informazioni di collaboratori, di informatori. Molti di questi informatori spesso sono gli stessi che lavoravano per Saddam. Inoltre, siccome sanno che avranno una ricompensa monetaria, molte volte l’informazione non è corretta o è falsa e serve soprattutto per sistemare le loro vecchie storie, per vendetta, per ripicca, per gelosia. E stiamo parlando non di pochi casi. Le carceri irachene sono piene, traboccano di prigionieri, un po’ per crimini comuni, ma soprattutto per reati legati alla resistenza. Non soltanto i centri di detenzione ufficiali. Se vai a Abu Ghraib c’è un carcere che secondo gli americani contiene ottomila persone, ma secondo più o meno tutti i testimoni iracheni (cioè i sospetti che vengono arrestati e rilasciati, perché non c’è accesso per nessuno a queste carceri) si parla di una cifra fra le diecimila e le quindicimila persone. Ma gli iracheni vengono anche portati nelle basi di appartenenza dell’unità che li ha arrestati, e qui purtroppo, ma anche nelle carceri ufficiali, il pestaggio, la tortura in molti casi è la norma. Testimoni hanno visto iracheni torturati con il manganello elettrico. C’è gente che ha i segni dello spegnimento delle sigarette sulle braccia, e a due mesi dal rilascio hanno ancora i solchi delle fascette di plastica coi quali vengono tenuti ammanettati ventiquattro ore su ventiquattro dietro la schiena, incappucciati ventiquattro ore su ventiquattro, e tenuti in posizioni scomode per tutto il tempo, sdraiati a pancia in giù, o seduti a gambe incrociate. In una base in particolare, vengono tenuti insieme ai cani e nella cultura islamica il cane è alla stessa stregua del maiale, è un animale impuro. Spesso poi non vengono tenuti in posti chiusi, ma all’aperto, circondati da filo spinato, senza la possibilità di utilizzare un vero bagno, ma semplicemente con una buca in un angolo. Il loro nome e il motivo dell’arresto viene scritto sulle loro vesti. E’ inutile dire che la Convenzione di Ginevra non viene presa in considerazione. La violazione della Convenzione non è soltanto di una sola tipologia. Per esempio secondo la Convenzione di Ginevra un corpo occupante non può legiferare, e invece legifera. Secondo la Convenzione di Ginevra non si possono cambiare le strutture portanti dello Stato, e invece c’è questo tentativo di cambiarle, anche se, viste le condizioni di sicurezza, le privatizzazioni per il momento rimangono più sulla carta che reali. E rispetto a quello che ho potuto toccare io con mano, vivendo quotidianamente nel paese, l’umore e l’atmosfera in Iraq, a Bagdad, degenerava di mese in mese. Di mese in mese gli occhi, le facce degli iracheni hanno perso la speranza. Hanno perso la speranza di riuscire in qualche modo a sfruttare un’occasione, pur se erano coscienti delle motivazioni economiche, strategiche, politiche della presenza della Comunità Internazionale nel loro paese. Questa che è stata la cosa più angosciante a Bagdad: vedere la speranza che se ne andava dagli occhi di tutti. E quest’ultimo mese ha segnato una svolta pesante con gli attacchi ai quartieri sciiti, durante il pellegrinaggio alla città santa di Kerbala. Gli Sciiti iracheni sono stati oppressi dal regime di Saddam in maniera brutale, soprattutto nel ’91, ma per tutto il tempo in cui è durato il regime, sono stati schiacciati, la loro identità è stata negata. Quindi per loro era un momento importantissimo, di riacquisizione della loro identità, della loro possibilità di vivere questo pellegrinaggio. Quindi gli attentati terroristici, che non sono stati visti come opera della resistenza, ma come opera di infiltrazioni protette dalla CIA e dal Mossad, ha dato un ulteriore colpo al morale iracheno. Anche se il gioco di mettere gli uni contro gli altri i diversi settori della società irachena, le diverse etnie è fallito. Di fatto ci sono state un po’ di situazioni di tensione, ma niente che potesse degenerare in una guerra civile, o in uno scontro più importante. Sicuramente la mossa americana di provocare la reazione di un leader radicale sciita, che fino a poco tempo fa non era certo l’ago della bilancia della politica irachena, fortunatamente non ha funzionato. La provocazione, attuata attraverso la chiusura del suo giornale, sperando che avrebbe immediatamente provocato una reazione di piazza forte, importante, anche da parte di altri gruppi Sciiti, e, cinque giorni dopo, la violazione di Kerbala, una città santa, e l’arresto di uno dei suoi uomini più importanti, era chiara ed ha provocato manifestazioni di protesta anche da parte di tanta altra gente. La manifestazione è stata caricata con violenza, si è sparato, la gente si è ritirata in Saddam-City, che è il ghetto povero degli Sciiti di Bagdad, un ghetto di due milioni e mezzo di abitanti (e Bagdad ha una popolazione che si aggira intorno agli otto milioni di abitanti). Qui è scattata la grande repressione, con niente che potesse giustificare un attacco a un quartiere, che è durato due notti. Il quartiere è stato bombardato con F14 e con gli elicotteri: ci sono stati 100 morti, e circa 300 feriti. Contare i morti e i feriti in Iraq è un’impresa, perché gli americani vanno negli ospedali ad arrestare la gente, e quindi le famiglie hanno paura a portarvi i feriti e cercano di curarseli in casa. Inoltre i morti per tradizione islamica vanno sepolti lo stesso giorno del decesso, quindi si parte immediatamente con il rito e le cerimonie funebri. Io sono stata a Saddam City dopo due giorni e due notti di attacchi e Saddam-City era circondata. C’era un primo cordone di sicurezza formato dalla polizia irachena, che è formata da iracheni; e queste persone prima di essere poliziotti sono iracheni, iracheni che non hanno un lavoro, e l’unico lavoro, l’unica fonte numericamente importante di lavoro è l’esercito, la polizia sotto l’occupazione. Dopo il primo cordone di polizia, arrivando nel cuore di Saddam-City, vicino al quartier generale di Moqtada Al Sadr, c’erano cinque carri armati su un lato della strada, e dalla parte opposta ce n’erano tre. Dopo un’ora c’erano venticinque carri armati, dieci da una parte e quindici dall’altra con i cannoni puntati sulla folla, che si stava radunando chiamata dall’Imam, per difendere la moschea, perché la paura era un ulteriore attacco alla moschea. L’atmosfera era pesante, una delle atmosfere più pesanti cha abbia mai sentito a Bagdad, ma non pesante nei miei confronti, io questo ci tengo a sottolinearlo, perché questo è un quartiere dove vai con il velo, per una forma di rispetto, ma puoi anche andare senza velo. Inoltre era un quartiere completamente colorato di nero. Nero perché c’erano le bandiere, gli striscioni neri per la lunga celebrazione Sciita che dura quaranta giorni. Quaranta giorni che coincidono con la nostra Pasqua, quindi quaranta giorni importantissimi per gli Sciiti, che li celebrano anche con degli striscioni neri su cui vengono riportare le sure del Corano. A questi striscioni neri si univano gli striscioni neri che segnavano i lutti delle famiglie. Lì c’è l’abitudine di segnalare il lutto, qualsiasi tipo di lutto, esponendo uno striscione fuori dalla casa. Quindi tra gli striscioni neri delle celebrazioni religiose, gli striscioni di lutto per i 100 morti, e le tende dei funerali (perché i funerali vengono svolti subito ed il corpo viene immediatamente sepolto, però vengono allestite delle tende per celebrare il rito del funerale, da parte dei parenti e degli amici) tutto il quartiere, pieno di queste tende, era nero, e la gente fra la paura, la disillusione e la rabbia era molto tesa. Su questa tensione si è inserita, ovviamente, l’azione della resistenza di Fallujia, e qui si apre una pagina nera della pur sempre nera storia delle guerre, della storia militare. A Fallujia è stato uno scempio. Fallujia è tuttora sotto assedio da 12 giorni, ma i primi giorni di assedio a Fallujia è stata una mattanza: la gente ha sepolto i propri cari allo stadio, li ha sepolti in tutta fretta, perché aveva paura dei cecchini americani. Ci sono famiglie intere nella stessa tomba, sono sepolti anche nelle case, nei giardini di casa, perché l’area dei cimiteri era troppo pericolosa e spesso non è stato possibile raggiungerla. Dopo la seconda notte, non è stato possibile neanche raggiungere l’ospedale, perché gli americani l’hanno circondato. Non è stato possibile mandare, se non in maniera veramente molto difficoltosa, e, grazie ai rapporti della gente con la resistenza, far entrare medicinali. Tutti i convogli grossi sono stati fermati fuori dalla città. Le autoambulanze sono state distrutte in due notti, per cui i due ospedali di Fallujia non avevano più ambulanze. Qualsiasi cosa si muovesse in città veniva colpito. Non solo, il terzo giorno è stato proclamato unilateralmente un cessate il fuoco dagli americani: la popolazione, soprattutto donne, bambini, vecchi, qualche ragazzo, ma anche molti uomini hanno deciso di uscire da Fallujia e si sono mossi per allontanarsi dalla città. Quando metà della gente era fuori e metà della gente era ancora in città, i bombardamenti sono ricominciati, spaccando in due il flusso di persone. Così una metà si è ritrovata all’interno della città sotto i bombardamenti e sotto gli attacchi, mentre l’altra metà si è trovata fuori, nel deserto, ed ha scoperto che gli americani avevano chiuso qualsiasi possibilità di accesso ai villaggi vicini. Quindi è stato impossibile per un’intera notte muoversi da dove erano, e le notti nel deserto sono fredde, con poco cibo, con poche coperte. Il giorno dopo la gente dei villaggi è riuscita a rompere l’assedio e, a gruppetti di due, tre, quattro, attraverso piste, attraverso giri strani, è riuscita a portare la gente in salvo. Da Fallujia a Bagdad e nel resto dell’Iraq, ma a Bagdad in maniera particolare perché è molto vicina a Fallujia, hanno risposto immediatamente, Sciiti, Sunniti, cristiani non c’è stata differenza, tutti. E’ iniziata una gara di solidarietà, per donare il sangue, anche se non c’erano abbastanza sacche per la raccolta, per portare cibo, un chilo di farina, soldi, e le moschee sono diventate un punto di raccolta degli aiuti e un punto di organizzazione dei convogli umanitari. Gli americani hanno permesso l’accesso ufficialmente ad un convoglio 12 giorni dopo l’assedio, e a Fallujia mancava tutto. Mancava acqua, mancava cibo, mancavano bende, mancavano punti di sutura, mancava l’aspirina, mancavano gli antibiotici, mancava tutto. I testimoni hanno visto i corpi dei morti colpiti alle spalle, anche vecchi, donne e bambini. Il primo convoglio che era riuscito ad entrare a Falluja con dei medicinali, casualmente ha trovato dietro una macchina una persona con un bimbo di un anno e mezzo, e glielo ha consegnato perché lo portassero a Bagdad. Il bambino è arrivato a Bagdad senza una gamba, e all’interno dell’ospedale italiano purtroppo hanno dovuto amputargli anche una mano. Questo bimbo aveva un anno e mezzo e tutta la sua famiglia è morta, perché la casa è stata bombardata ed è crollata. Non voglio fare pietismo però quello che è successo in questa città è stato sicuramente l’attacco più omicida avvenuto in quei giorni. Ma anche altre zone di Bagdad hanno vissuto momenti molto, molto duri: prima Saddam-City, ma anche il quartiere sunnita, il quartiere dell’aeroporto, che è anche il quartiere del carcere, ed è un quartiere molto, molto difficile per gli americani, perché è l’ultimo quartiere per uscire da Bagdad e andare verso Fallujia. I quartieri limitrofi la gente aveva cercato di isolarli, mettendo dei pezzi di palma, piuttosto che dei blocchi di cemento, dei vasi di fiori, per rendere difficoltoso il passaggio. In questo momento, quello che gli americani sono riusciti a fare è stato di unire ancora di più fra loro tutti i gruppi Sciiti, che sono in effetti tanti, e di unire Sciiti e Sunniti. Ovviamente è difficile dire se questa unità potrà continuare. Ma sicuramente se continua l’occupazione, se continua l’attacco, se i civili continueranno a morire, la situazione diventerà sempre più complessa, anche perché l’Iraq non è un’isola dei Carabi come Grenada, o come Panama. L’Iraq è circondato da paesi, ognuno dei quali sta facendo il proprio gioco sulla testa degli iracheni, e gli americani continuano a fare la loro guerra, che si appoggia al piano Sharon. E questo non aiuta neppure la situazione irachena.

(…) Quando Berlusconi è arrivato a Nassirjia, non rischiando nulla, ha parlato facendo i complimenti alle truppe, e dicendo: "bravi ragazzi continuate così, l’Italia è orgogliosa di voi". In quel momento, a Nassirjia, c’erano 14 famiglie di civili in lutto, con ancora le tende del lutto, e 30 feriti all’ospedale fra i quali donne e bambini. Questo ha avuto una ripercussione sugli italiani presenti in Iraq immediata e palpabile. Non lo dico soltanto per noi, che eravamo lì come operatori umanitari, lo dico anche per gli italiani che lavorano all’interno della coalizione. E’ stato un momento in cui tutti, dal primo tassista all’ultimo che mi vendeva le sigarette, mi facevano notare: "l’abbiamo sentito il vostro Presidente, complimenti!". E uno di loro, fra parentesi, ha avuto anche un morto a Nassirjia. Quindi certe dichiarazioni, in campagna elettorale, si possono fare in Italia, ma è molto più pericoloso farle in Iraq, perché le ripercussioni sono dirette e immediate.

(…) In Iraq la prima forza di occupazione sono gli americani, la seconda forza di occupazione sono trentamila guardie private. Di queste trentamila guardie, alcuni sono italiani. E queste trentamila persone in Iraq, fanno di tutto; è vero, proteggono gli alberghi, proteggono l’aeroporto, fanno traning alla polizia, all’esercito. All’interno di queste trentamila guardie private però ci sono anche gli squadroni della morte brasiliani, gli squadroni della morte centro-americani, gli squadroni sudafricani, e per gli iracheni è pressoché impossibile vederli come civili. Io stessa non li vedevo come civili, perché viaggiano in uniforme, e molte volte ti fanno più impressione loro che non i soldati in divisa. Non rispondono a nessuna gerarchia militare se non a chi li paga, e quindi per gli iracheni, ripeto, è impossibile vederli come civili, impossibile. Per loro sono forze di occupazione, e ci sono molte testimonianze che rivelano che hanno preso parte ad attacchi, sia a Fallujia che in altre zone dell’Iraq, anche se purtroppo non ho avuto tempo né modo di verificare. Un’altra cosa brutta riguarda giornalisti e operatori umanitari rapiti: è aberrante, però i servizi segreti in Iraq vanno in giro presentandosi come giornalisti e operatori di organizzazioni umanitarie. Questo è gravissimo perché è chiaro che si genera confusione, così come si genera confusione quando diciamo che gli eserciti sono lì in missione umanitaria, quando è chiaro che non sono in missione umanitaria, che l’Italia non è in Iraq in missione di pace, e i soldati italiani hanno sparato sulla folla. Non è possibile vederla come missione umanitaria, non è mai stato possibile…. Non è facile, quando si è là, da iracheno, con tutto quello che gli iracheni hanno passato negli ultimi trent’anni della loro storia, fare queste sottili distinzioni. Quindi l’unica soluzione possibile è che gli si dia una risposta, che si ricominci a far parlare la politica, perché nonostante la situazione sia così critica, così delicata, gli spazi politici ci sono ancora e quindi bisogna fare il possibile per ridare la parola alla politica. Non sono tantissime le città che sono insorte, e anche a Saddam-City, due milioni e mezzo di abitanti, soltanto una parte della popolazione ha preso le armi. Gli iracheni sono stufi di morire. Sono morti nella guerra Iraq-Iran, sono morti nella guerra del Kuwait, sono morti per la repressione feroce di Saddam, stanno morendo quotidianamente sotto questa occupazione. (…) Quanto al personale italiano che lavora in Iraq, il grosso del contingente italiano è a Nassirjia. Io a Nassirjia ci sono stata prima dell’attacco alla sede dei Carabinieri e poi non ho più avuto modo, per ragioni di lavoro, di ritornarci. A Bagdad, se lavorano, gli italiani lavorano per imprese private, però la loro modalità di lavoro è di uscire perennemente armati, con le loro divise, muovendosi in città con auto blindate, con i vetri neri, solitamente in convogli di tre – quattro macchine, quindi facilmente riconoscibili, molto veloci. Gli iracheni hanno ormai imparato: quando passano macchine della sicurezza come quelle, jeepponi con vetri neri o vetri argentati e convogli militari, ci si ferma e li si lascia passare. Più entri nella zona ultra protetta degli alberghi, dello Sheraton, e più sei circondato da queste presenze. Questa è tutta gente che il rapporto con gli iracheni non ce l’ha, se non con il cameriere dell’albergo, e quindi per loro è impossibile capire che cos’è l’Iraq. Così come non lo capiscono quelli che lavorano per l’autorità provvisoria; i civili che lavorano al suo interno non hanno possibilità di uscire, perché non gli è concesso, e quindi loro conoscono l’Iraq solo attraverso le televisioni e il personale iracheno che lavora con loro. Personale iracheno che ha talmente paura di dire dove lavora che spesso non lo dice neanche alla propria famiglia, e comunque non lo dice all’interno del quartiere dove abita. Ci sono persone che hanno scoperto di avere amici che lavoravano all’interno della mitica Green Zone, solo perché sono morti durante un attacco. Quindi tutti quelli che hanno a che fare con la sicurezza, con la coalizione provvisoria, con l’esercito americano, stanno bene attenti a non dirlo per paura della reazione della gente.

(…) Soprattutto le parti più povere della popolazione, non vedono la differenza con il passato regime di Saddam, anzi. Io ho incontrato delle donne, una donna in particolare, che mi diceva: "io avevo quattro figli, due mi sono spariti nelle carceri di Saddam, due mi sono spariti nelle carceri degli Stati Uniti. Dov’è la differenza?". I detenuti non hanno neppure diritto all’assistenza legale, è a totale discrezione degli americani decidere che cosa farne, e ci sono famiglie in pellegrinaggio quotidiano, fuori dai muri di Abu Ghraib, per sapere che fine hanno fatto. Quando hanno fortuna il nome dell’arrestato che cercano è stato comunicato al centro di assistenza degli iracheni, e quindi gli hanno dato un numero. Ma se l’arresto non è stato comunicato, e quindi non c’è il numero, non si sa dove sia. C’è gente che chiede indietro il corpo del parente ucciso, che si sa che è dentro alla base, e non glielo ridanno, perché non sanno più dov’è. Spesso perdono anche gli oggetti che sequestrano. Un iracheno si è sentito dire che per avere indietro il suo computer doveva dare il numero di serie. Ora, gli iracheni hanno assistito al saccheggio dell’Università, della biblioteca, degli ospedali, del Museo Archeologico, del Museo di Arte Contemporanea, con i carri armati americani che erano lì a guardare, e adesso loro devono dare il numero di serie del computer per dimostrare che non l’hanno saccheggiato. Io non so quanti di voi conoscono il numero di serie del proprio computer, personalmente non so neanche la targa della mia macchina. Questo è quello che subiscono gli iracheni. Una volta ero fuori dal check point dell’aeroporto, con delle famiglie, sempre per vedere, per capire il meccanismo della compensazione, e c’era lì una donna che da tre mesi chiedeva indietro il suo asino; perché per lei l’asino era fondamentale per trasportare i prodotti dall’orto al mercato di Bagdad, e la sua preoccupazione era: gli staranno dando da mangiare? C’è gente che è stata arrestata o fermata per una notte, gli hanno sequestrato la macchina, la macchina viene portata all’interno dell’aeroporto e sono mesi che chiedono di avere la macchina indietro. E non è la macchina per andare in ufficio. L’automobile lì può essere fonte di lavoro, perché ti trasformi in tassista, e quando sei in giro per fare la spesa, e vedi qualcuno che ha bisogno di un passaggio, riesci a guadagnare quei pochi soldi che ti permettono di comprare qualcosa in più al mercato. La macchina è un bene vitale per molti iracheni, e quindi questo aumenta ancora di più la loro frustrazione. Questa situazione dell’Iraq può essere moltiplicata per tutte quelle che sono le guerre sconosciute, le guerre silenziose, dimenticate. L’Occidente, che siamo noi, con i nostri stili di vita, dobbiamo scoprire che non esiste una sola civiltà, una sola verità, ma che esistono tante civiltà, tante verità e solo nella convivenza pacifica, nel rispetto, nel dare ad ognuno il proprio posto nel mondo sta la nostra speranza".

D: Come hai iniziato a lavorare con Un ponte per…?
R: "Ho iniziato lavorando sui morti civili causati dagli americani, ho fatto il giro delle organizzazioni per i diritti umani irachene, che avevano iniziato a raccogliere informazioni e denunce da parte dei familiari delle vittime, e ho trovato un’organizzazione che ha subito mostrato il desiderio di iniziare a lavorare su questo problema. Inoltre uno dei suoi membri era un ragazzo di 30 anni che parlava bene l’inglese, e questo agevolava notevolmente i nostri rapporti. Quindi abbiamo iniziato immediatamente a lavorare insieme. In un primo momento abbiamo fatto una prima raccolta di denunce, poi abbiamo recuperato la legge che gli americani stanno usando per regolamentare gli indennizzi, e abbiamo cominciato ad accompagnare alcune associazioni, alcune famiglie, per verificare tutta la procedura. Dopo un lavoro di tre mesi sul campo con queste famiglie abbiamo presentato alla stampa un report, il 10 gennaio scorso, dove si denunciavano, non soltanto la tipologia delle violazioni, soprattutto legate alle sparatorie indiscriminate, alle perquisizioni nelle case, ma anche la lentezza e il fallimento, di fatto, della procedura, perché gli americani non possono accettare nessuna richiesta di compensazione, se l’incidente è avvenuto in una combact situation. Combact situation è una definizione elastica che dipende da loro e in più devi dimostrare che l’unità militare si è comportata in maniera o negligente o ha fatto qualcosa di sbagliato. Per dimostrare queste due cose, tu dovresti conoscere le regole di ingaggio dei soldati americani. Ma le regole di ingaggio in Iraq sono segrete, quindi è il gatto che si morde la coda. Gli avvocati, le associazioni che lavorano sui diritti umani non capiscono neppure quali sono gli spazi all’interno della legge per potersi muovere, e tutto è nelle mani di una figura che è un giudice e un avvocato nello stesso tempo, in più è un militare ed è americano. Quindi gli americani spesso rifiutano di accettare un caso, perché a priori decidono che si tratta di combact situation, oppure lo accettano, ma la loro indagine si esaurisce semplicemente nel telefonare all’unità in questione e chiedere al comandante che cosa è successo in quel momento. Il comandante gli dice: "i ragazzi hanno risposto seguendo le regole di ingaggio", e il caso è chiuso. Tu vai in uno di questi uffici, che ha una procedura e un modulo da compilare, poi vai in un altro ufficio e hai un’altra procedura e un altro modulo. Sei sempre nell’incertezza, cambiano le cose molto spesso, quindi tu magari hai iniziato la pratica con una procedura, e dopo tre – quattro mesi gli americani la cambiano, e devi ricominciare tutto da capo. Il fatto poi che non accettano indennizzi nei casi di combact situation, implica anche che non hanno nessuna intenzione di investigare se l’unità ha fatto un eccessivo uso delle armi da fuoco, o un’eccessiva violenza, e questo ha sicuramente aumentato la sensazione di impunità fra le truppe perché sanno benissimo che non saranno mai messi sotto inchiesta. E’ vero poi che alcuni soldati, invece sotto inchiesta ci sono finiti, almeno 16 in un caso ed altri 4 in un altro, ma perché la grande stampa aveva cominciato a parlare di questi casi, e la cosa rischiava di diventare troppo eclatante. Quindi hanno messo sotto inchiesta questi 16 soldati per maltrattamento ai prigionieri, però, non per reazione troppo violenta o esagerata sulla folla.

D: Ma qualche caso di indennizzo effettivo c’è stato, secondo te?
R: Gli americani sono disponibili a pagare i danni materiali, per esempio la macchina sfasciata, la casa distrutta, però sui morti, i feriti, è molto più difficile. Loro di solito cercano di venire incontro ai problemi delle famiglie con quella che chiamano simpaty money. Il simpaty money è questo: i soldati hanno agito correttamente, però ci rendiamo conto che per lei è una tragedia, quindi le diamo 2500 dollari. E anche su questo c’è la presa in giro, perché, secondo la loro legge, 2500 dollari non impediscono alla famiglia di andare avanti con la causa legale. Però loro quando ti presentano la ricevuta, aggiungono a penna: con l’accettazione di questo denaro il caso viene considerato chiuso. E anche questo è illegale.

D: Vorrei sapere qualcosa sui danni ambientali che ci sono in Iraq a causa di questa guerra.
R: I danni ambientali di questa guerra attualmente non è facile valutarli, non ci sono ancora grosse organizzazioni che stanno facendo valutazioni, ci sono solo piccoli sporadici gruppi di attivisti che arrivano in Iraq cercando di raccogliere informazioni. Sicuramente c’è stato un uso massiccio di armi all’uranio impoverito, questo è sicuro. Ho parlato con dei ragazzi che sono andati in giro con il contatore geiger intorno ai mezzi militari iracheni colpiti, ed è risultato evidente. Poi comunque ormai è una costante degli americani utilizzare questo tipo di armi, quindi….Le hanno usate sempre, dal ’91 in avanti, non si capisce perché non avrebbero dovuto usarle questa volta, anche se mi rendo conto che non è un discorso molto scientifico. Però, comunque, per avere effettivamente le prove, penso purtroppo che le avremo con i nuovi nati, con i feti, i bambini. C’è un inquinamento ambientale nel deserto, che continua ad essere forte, perché già era stato inquinato pesantemente durante la guerra nel ’91. Il deserto è un ecosistema molto delicato, e assorbe tutte le sostanze tossiche e nocive. C’è poi un inquinamento atmosferico pesante. L’aria a Bagdad è pesante: ti svegli al mattino e c’è spesso una riga nera, proprio all’orizzonte. E’ la centrale elettrica che funziona a petrolio, anche se funziona solo una delle tre ciminiere, a volte due. Quindi, ci sono continue emissioni nocive nell’aria, c’è una benzina molto sporca, e un parco macchine che negli ultimi mesi si è alquanto ammodernato, però rimangono autobus, camion, e automobili con motori vecchi, benzina sporca, quindi c’è un inquinamento molto forte.

C’è poi il danno ecologico che è stato causato da Saddam nel ’91, quando lui ha represso la rivolta degli Sciiti al sud. Saddam infatti cercò, riuscendoci, di svuotare completamente un’area, vicino a Nassirjia. Questa era una zona di lagune, che si alimentava con l’acqua che arrivava anche dalla Turchia, quindi, un po’ per la politica delle dighe in Turchia, un po’ a causa di Saddam Hussein che fece costruire dei muri artificiali in terra, impedendo l’accesso all’acqua, una gran parte di queste lagune si è desertificata. Ora ci sono proprio i resti dei tronchi, di mezzi tronchi di palma bruciati dal sole, e cammini sulle conchiglie, cioè sul fondale di queste acque. Ed era fra l’altro una zona turistica. Poi Saddam ha bombardato e successivamente raso al suolo i villaggi intorno, causando qualcosa come quindicimila sfollati, che sono scappati. In parte si sono rifugiati in Iran, in parte sono andati verso la Turchia. Insomma, gli Sciiti hanno dato vita ad una vera e propria diaspora. Stanno rientrando adesso, causando notevoli problemi, perchè tutte le strutture erano state calibrate su una popolazione numericamente inferiore. Quindi anche alcuni piccoli ospedali rurali che prima, anche se a fatica, riuscivano a tamponare la situazione sanitaria, adesso a causa di tutta la gente che è rientrata in Iraq, in quelle zone non ce la fanno più e quindi le strutture sono carenti.

C’è infine il problema dell’inquinamento delle acque, anche questo molto forte, perché tutti scaricano nel Tigri e nell’Eufrate. Sicuramente poi c’è presenza di uranio impoverito nei fiumi. Ma purtroppo non mi sono occupata più a fondo dei problemi legati all’inquinamento, anche perché in questo momento è veramente difficile.

25 aprile 2004-06-28
Pochi giorni dopo scoppia lo scandalo delle torture inflitte dai soldati americani ai detenuti iracheni di Abi Ghraib.

ha collaborato Sarah Monaci

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