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Non sono ancora le 11.30, ora dell’appuntamento a Rsf, ma gli ospiti cinesi sono già tutti seduti attorno alla tavola rotonda dove si terrà la riunione. Si guardano attorno e scambiano sorrisi con i giornalisti. Sono visibilmente emozionati, quasi ansiosi di raccontarsi. Prende la parola Vincent Brossel, di Reporters sans frontieres e sottolinea subito il senso di questa commemorazione: "Dopo 15 anni, la repressione in Cina continua. Proprio qualche ora fa è stato arrestato un intellettuale". Dall’89 ad oggi sono finite dietro le sbarre più di 130 persone, tra giornalisti e internauti. Quarantatre di loro avevano partecipato alla Primavera di Pechino, come viene anche chiamato il periodo delle proteste dei giovani a Tienanmen (15 aprile - 4 giugno ’89).
"Una madre è sorvegliata in casa per aver realizzato un video", continua Brossel. "Un’altra vittima della repressione è stata internata in un ospedale psichiatrico. L’Unione Europea non ha dunque nessuna ragione per togliere l’embargo sugli armamenti imposto alla Repubblica Popolare dopo i fatti dell’89". Dello stesso parere è Wei Jingsheng, uno dei fondatori del movimento democratico cinese, incarcerato per 18 anni: "I membri dell’Ue hanno annunciato di voler annullare l’embargo con il pretesto che la Cina ha registrato, negli ultimi tempi, uno sviluppo sia nei diritti umani che nell’economia. Non è vero. Il presidente Hu Jintao e il primo ministro Wen Jabao hanno dimostrato di essere più duri dei loro predecessori. Se Yang Zemin un tempo represse i gruppi religiosi, questi adesso si accaniscono contro gli operai, i contadini e i giornalisti".
"È importante ricordare - aggiunge Wei - che le dimostrazioni a Tienanmen furono molto diverse da quelle che da sempre si tengono a Washington o a Parigi. Allora le persone manifestarono davanti ai fucili puntati e vennero colpite per i loro ideali". Accanto a lui annuisce Cai Chong Guo, sindacalista 48enne che in Francia è fuggito subito dopo l’eccidio. "In questi 15 anni - ribadisce l’uomo - nel mio Paese la democrazia è continuata a mancare. Sono cresciuti i problemi sociali e sono peggiorate le condizioni di vita dei lavoratori nelle città e nelle campagne. Il governo impedisce loro di formare organizzazioni indipendenti. Esiste un sistema di persecuzione che opera in questo modo: i governatori locali danno gli ordini alla polizia che manda i ’dissidentì in campi di educazione forzata". Dalle parole di Cai, la Cina sembra non essere cambiata molto dai tempi della rivoluzione culturale di Mao Zedong (1966-’76), quando i nemici del Popolo venivano processati e umiliati in pubblico e poi spediti nei campi di lavoro: "Il 4 giugno - dice Cai - fu il primo e ultimo sussulto democratico indipendente". Fra i testimoni di Tienanmen uno mantiene lo sguardo abbassato. Si chiama Heng Langzi, non conosce il francese, perciò forse resta in disparte aspettando il momento di raccontare quel lontano giorno di primavera. "Tutti i media si sono chiesti se ci furono dei morti a Tienanmen", esordisce serio, come a lasciar trasparire un dolore incolmabile. "Il 4 giugno ’89 un responsabile del servizio d’ordine disse che non c’erano state vittime. A me spararono tre volte. Alcuni soccorritori mi portarono all’ospedale insieme ad altre tre persone. Due morirono, io ho ancora una pallottola nella gamba. Certo, la piazza è grande e i soldati la invasero completamente, quindi è difficile dire quanti giovani persero la vita. Però mi dispiace che molti testimoni oculari non vollero dire la verità".
Il pericolo che i fatti di Tienanmen cadano nell’oblio è reale. "La tragedia - dichiara la sinologa Marie Holzaman - è che in Cina si sta dimenticando sempre di più. La propaganda del governo è stata molto efficace nell’occultare quanto accaduto. Alcuni portano questi episodi nel cuore, ma lo spirito di condanna si è in gran parte esaurito". Il monito di Wen, Cai, Heng e Marie è rivolto anche alla stampa internazionale: "Non dimenticate i principi difesi dai manifestanti cinesi. Portate l’attenzione su questi temi". In Cina - ricorda il comunicato di Rsf - il termine "4 giugno" (liu si) è ancora bandito sulla stampa e sul web.