La triste fotografia della globalizzazione: un viaggio nel crudele mondo dei balocchi
“Made in China”. Quante volte vi sarà capitato di leggerlo sul prodotto appena comprato dal vostro
negoziante di fiducia o al supermercato sotto casa. Più dei tre quarti dei prodotti a basso costo o privi di
etichetta d’identificazione, sono realizzati in Cina. Il che, a ragion veduta, non implicherebbe nessuna
considerazione negativa, a meno che quegli instancabili lavoratori cinesi, disposti a farsi ore di duro lavoro per una
paga bassissima, non siano altro in verità che piccoli bambini costretti dalla miseria della famiglia ad aiutare i
genitori.
Ipotesi disdicevole, è vero, ma ahimè reale, visto che ormai da anni l’Unicef e moltissime altre
associazioni che si battono per la difesa dei diritti dell’infanzia, denunciano i continui soprusi quotidianamente
sopportati dai bambini nati da famiglie sfortunate.
Non so quanto possa servire quello che voglio raccontarvi, certo che, navigando su internet alla ricerca di informazioni
utili per la mia inchiesta, mi sono imbattuta in tante piccole tragedie, davanti alle quali non ho potuto che provare un
senso di rispetto e imbarazzo, imbarazzo per quanto i miei padri e i “padri della globalizzazione” –
come comunemente si sente dire – continuano a fare, vergogna per tutte le volte che comprando qualcosa, pur
consapevole della sua provenienza mi sono detta: “questa è la globalizzazione, non ci si può far niente
e poi non è detto che sia vero che dietro al lavoro ci siano i bambini…va verificato: sai quante cose si
inventano!”.
Vergogna! Sarebbe bastato navigare in rete, chiedere la “lista nera” (la lista di tutti i prodotti che non
andrebbero comprati perché realizzati col lavoro minorile) in qualche centro sociale o mercato equo e solidale,
oppure leggere giornali (come il nostro) dove è ancora possibile denunciare ciò che non va e sperare di
espiare almeno in parte il peccato di cui ci siamo macchiati.
Ho provato imbarazzo per me stessa, per la mia mediocrità e per quel falso senso di impotenza che mi ha spinto ad
affermare che il singolo non può cambiare il mondo. Ma ho provato anche rispetto. Rispetto per la vita, per il
sacrificio, per il lavoro. Perché tanto ci possono dare quei piccoli cucitori di scarpe, prima di tutto la
possibilità di riflettere su quello che non va, e il coraggio, davanti alla loro tragedia, di non abbracciare la
scelta dell’omertà.
Ecco perché scrivo questo articolo, perché spero che un po’ del mio sbigottimento, della mia rabbia e
della mia vergogna la proviate anche voi.
Come nasce il lavoro minorile
Il lavoro minorile nasce dalla miseria, vive nella miseria e genera miseria. Nel 1400 gran parte dei territori africani,
americani ed indiani furono invasi da grandi potenze europee che ne sfruttarono le risorse privandoli del loro naturale
sviluppo storico, politico, culturale ed economico. Nel 1800-1900, questi paesi ottennero l’indipendenza politica
ma naturalmente non quella economica. Furono costretti a chiedere soldi ai paesi che fino a qualche tempo prima li
avevano sottomessi, umiliati e soggiogati. Nasce così il debito estero. Mentre i paesi indebitati sono costretti a
lavorare il doppio per avere la metà (visto che con il rimanente devono saldare i debiti), dall’altra parte
del mondo c’è chi ha il doppio lavorando la metà. E’ la globalizzazione: da un lato c’è
chi ha tutto con piccolissimi sacrifici, dall’altro c’è chi dà tutto con grandissimi
sacrifici. Gli abitanti del Nord del mondo sono circa il 23% della popolazione mondiale. Questo 23% consuma l’80%
delle risorse del globo. Se tutti gli abitanti della terra avessero le stesse esigenze del popolo americano, sarebbero
necessari altri 5 pianeti come il nostro per usufruire delle risorse e di altri 3 per smantellare i rifiuti.
Ecco come nasce il lavoro minorile.
Il dossier
L’AMRC (Asian Monitor Resource Center) di Hong Kong, nel 1996 aveva preparato un dossier dove denunciava oltre
allo sfruttamento minorile per la produzione di giocattoli da parte delle multinazionali, anche i disastri che le
“disattente” multinazionali di giocattoli avevano causato nel sudest asiatico quali, ad esempio,
l’incendio della fabbrica Zhili a Kuiyong, con 87 operaie morte carbonizzate (19 novembre del 1993), e il 10
maggio 1993, l’incendio della fabbrica Kader in Thailandia, dove morirono 188 lavoratori. Nonostante le più
famose compagnie di giocattoli siano giapponesi e americane, i più grandi produttori restano i paesi poveri, come
la Cina, la Thailandia, la Malesia, le Filippine e l’Indonesia. In questi paesi le multinazionali, conservando la
proprietà dei marchi, concedono la licenza a piccoli imprenditori locali, così che un pallone da calcio che
noi, in Occidente, acquistiamo alla modica cifra di 40 euro, vale circa 17 dollari all’impresa locale e meno di
mezzo dollaro al bambino che l’ha cucito. Il resto è business, pubblicità e mondanità.
…il caso della Cina
La Cina, secondo quanto affermato nel Dossier, risulta essere il più grande produttore di giocattoli nel mondo. Nel
1993 l’esportazione di giocattoli ammontava a 4.471 miliardi di lire, di cui il 38% diretto in Usa, il 21% in
Europa e il 24% ad Hong Kong. Per l’80% i prodotti gestiti da Hong Kong servono a fornire gli Usa, ecco che gli
americani sono il popolo che consuma il maggior numero di giocattoli al mondo. Molte multinazionali come la Hasbro e
Mattel sono clienti della Harbour Ring Corporation, una grande leader giapponese. La Walt Disney ha fatto un contratto
con il Tak Lei Group per produrre giocattoli a basso costo. Inoltre molte industrie di Hong Kong (che ricordiamo servono
per l’80% gli Usa) possiedono i prototipi di giocattoli resi famosi dai cartoni animati come le tartarughe Ninja,
prodotte da Playmates Group.
Nel novembre del 1993, il 19 Novembre per l’esattezza, in una fabbrica di giocattoli di Kuiyong, una cittadina
cinese a ridosso di Hong Kong, scoppia l’inferno: l’incendio arriva fino al secondo piano dove lavorano 200
ragazze tra i 15 e i 20 anni. Alcune cercano disperatamente di fuggire ma i cancelli sono chiusi. Muoiono 87 ragazze
carbonizzate e 40 rimangono ferite, alcune talmente ustionate che resteranno invalide tutta la vita. La fabbrica si
chiamava Zhili ed era proprietà di una ditta di Hong Kong (la Tri-Co Industrial Ltd.) che produceva giocattoli
– udite, udite – per la Chicco. Secondo la legge cinese la Chicco deve risarcire i familiari delle vittime.
Troppo poco, per quanto ci riguarda, visto che non ha fatto niente per evitare la tragedia che ha causato la morte di
moltissimi minorenni.
La Chicco non ha sborsato una lira fino a quando le 4000 cartoline raccolte in tutto il mondo in segno di protesta,
l’hanno spinta a versare un risarcimento di 300 milioni di lire e all’adozione di un codice di
regolamentazione per l’appalto di nuove imprese in Asia, codice adottato davanti alle “compagne di
merenda” Nike, Nestlé Artsana (ma ce ne sono tante altre come la Mattel, la Reebok, la Shell,
l’Adidas…).
Il 27 agosto del 2000 viene pubblicato un articolo da “Repubblica” dal titolo: “Cina: Mc
Donald’s accusata di sfruttare il lavoro minorile”.
Responsabile dell’accaduto la ditta che fornisce i giocattoli a Mc Donald’s: la Simon Marketing Ltd di Hong
Kong, che ha commissionato la produzione degli articoli alla City Toys Ltd, la quale farebbe lavorare i bambini 16 ore
al giorno, 7 giorni su 7, pagandoli 1.5 yuan l’ora (circa 380 lire) per produrre peluche di Snoopy, Winnie e altri
personaggi dei fumetti. I bambini impiegati sono circa 400 su un totale di 2.000 impiegati, di età media pari ai 14
anni.
I bambini dormono in dormitori adiacenti alla fabbrica, ammassati a decine su panche di legno che, manco a dirlo, non
sono dotate nemmeno di materassi.
e ancora…
A Jakarta, nella fabbrica Hasi, vengono prodotte le note scarpe Nike. Lì sono impiegati circa 6.700 minori, che
producono 2.000 scarpe l’ora. Nella fabbrica lavora anche Tri Mugiayanti, una ragazza indonesiana di 14 anni
addetta alla spalmatura del mastice sulle suole. L’aria è satura di esalazioni emanate dalle vernici e dai
mastici, la temperatura è di circa 40° centigradi: dopo meno di dieci minuti ti senti svenire, incomincia a
venirti un terribile mal di testa e a bruciarti occhi e naso.
Per ogni paio di scarpe del modello Air Pegasus, la Hasi riceve 26.400 lire, ma la Nike lo rivende ai grossisti a 56.000
lire e nei negozi a più di 112.000 lire.
Tri Mugiayanti riceve 350 lire l’ora.
Se la Nike e la Reebok rinunciassero ad uno spot pubblicitario in televisione, il salario annuo di un centinaio di donne
che producono scarpe in Cina o nelle Filippine sarebbe raddoppiato.
Ecco alcuni dati…
Thailandia: il 32% della forza lavoro è costituita da minori (5 milioni)
Filippine: i minori che lavorano sono 2.200.000
India: i minori che lavorano sono 55-60 milioni
Nepal: il 60% dei bambini svolge lavori che ne impediscono il normale sviluppo
Bangladesh: 15 milioni di minori al lavoro
Nigeria: lavorano 12 milioni di minori
Brasile: lavorano 7 milioni di bambini
Pakistan: sono 8 milioni i bambini ridotti in schiavitù
Perù: il 20% dei lavoratori nelle miniere ha fra gli 11 e i 18 anni
Filippine: lavorano 5.7 milioni di bambini
Egitto: secondo fonti governative, lavorano 1.4 milioni di bambini
Indonesia: 300.000 bambini lavorano nelle industrie manifatturiere
Italia: sono 509.000 i lavoratori con età tra i 6 e i 13 anni, compresi i baby lavoratori saltuari e non
continuativi (consultabile all’indirizzo: www.minori.it)
Cosa fare?
Informarsi, informare, boicottare.
Informarsi attraverso la stampa, la televisione (quella seria), internet.
Informare gli amici, i parenti e tutti, collaborando con le associazioni, le riviste.
Boicottare i prodotti che finanziano e alimentano le ingiustizie perché dietro il malessere c’è fame, miseria e morte.
Parlare e confrontarsi con quanti sono a favore della globalizzazione spietata e delle guerre, e far loro capire che
basterebbe l’1% delle spese destinate all’armamento per garantire una vita serena a tutti i bambini del
mondo.
Consumare criticamente: comprare prodotti equi e solidali e soprattutto consumare meno: saper dire anche qualche
“no”.
Alcuni consigli…
Nei libri:
- Geografia del Supermercato Mondiale, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ed. EMI.
- Sulla pelle dei bambini, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ed. EMI.
- Guida al consumo critico, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ed. EMI.
- Ai figli del pianeta, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ed. EMI.
Nei siti internet:
Negli opuscoli:
- Iqbal aveva 150milioni di fratelli, Mani Tese.
- Lo zucchero amaro di Carlos José…e altre storie di lavoro infantile, gruppo Abele.
- I bambini che lavorano, UNICEF, 1999.
La storia
Cari lettori, questa è la mia storia. Mi chiamo Iqbal Masih, sono nato nel 1983 a Muridke, in
Pakistan. Dall’età di quattro anni lavoro in una fornace di mattoni per qualche rupia al giorno, ma la paga
non basta, mio padre ha deciso di vendermi per 12 dollari. Ora che lavoro per un fabbricante di tappeti, la notte dura
pochissimo: lavoro 12-13 ore il giorno per una rupia al giorno (50 lire italiane). Ho deciso di scappare. Non so dove
andrò, ho solo 9 anni, ma voglio scappare. Per strada si sentono degli strani ritornelli che cantano di
“diritti”, “libertà” e “democrazia”. Per voi: la manifestazione del Fronte di
Liberazione del Lavoro Schiavizzato (BLLF), per me: la rivoluzione. Da quando ho partecipato alla manifestazione e
grazie all’avvocato Eshan Ullah Khan, sono riuscito a far chiudere un sacco di fabbriche che sfruttavano il lavoro
minorile, e ho fatto conoscere a tutto il mondo la mia storia. Mi hanno dato pure un premio: 15mila dollari, con i quali
aprirò una scuola per ex bambini schiavi. Ho deciso di studiare: da grande farò l’avvocato.
16 APRILE 1995, IQBAL MASIH VIENE ASSASSINATO DALLA “MAFIA DEI TAPPETI”. SAPEVA TROPPO ANCHE SE AVEVA SOLO
12 ANNI.
Il testamento di Iqbal Masih
Cara mamma, caro papà,
quella notte vi ho sentiti piangere nel buio. Tu mamma, ti disperavi di doverti separare da me. Tu, papà, ti
disperavi perché non avevi saputo garantirmi una vita spensierata e felice. Il “si” che avevi
pronunciato quel giorno lo consideravi come una colpa imperdonabile. Ma, papà, io so che la colpa non è tua,
ma di chi ci ha costretti ad una vita di stenti.
So che tu hai fatto tutto il possibile per accudirci e farci andare
a scuola. (…)
Mi batterò non solo per liberare me stesso e i miei compagni di sventura dalle catene in
cui mi trovo. Consacrerò la mia vita alla lotta contro le ingiustizie, non solo quelle che colpiscono i bambini, ma
anche gli adulti, perché non può esserci benessere per i bambini finché gli adulti saranno offesi e
sfruttati.
Vi abbraccio, vostro Iqbal
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno dedicato il loro tempo alla lettura di queste storie; vorrei ringraziare
Legambiente che offre ancora spazi per raccontare fatti di cui poco si sente parlare; vorrei ringraziare tutte le
associazioni che da sempre si battono per il rispetto dei diritti fondamentali dei minorenni e di tutte quelle persone
che scrivendo, narrando, e lasciandone traccia in riviste, libri ed internet, mi hanno permesso di scrivere questo
pezzo; ed infine vorrei ringraziare loro, i piccoli angeli che raccontando la loro storia e rischiando talvolta anche la
vita, come nel caso di Iqbal Masih, ci hanno permesso di essere ancora capaci di distinguere il bene dal male.