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Sommario:

  1. Editoriale
  2. Il viatico
  3. Conflitti
  4. Bambini
  5. Stili di vita
  6. Cibi
  7. Terra, Acqua, energia
  8. Speciale Meeting di San Rossore sui cambiamenti climatici, luglio 2004
  9. Media
  10. Campagne e movimenti
  11. Diritti
  12. Culture
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La rivoluzione quotidiana.
Dall’economia dello spreco all’economia della sobrietà: sfide globali e sfide locali

di

Francesco Gesualdi

Un mondo sempre più squilibrato

Viviamo in un mondo terribilmente squilibrato. Basti dire che il 20% più ricco della popolazione mondiale si appropria dell’86% della ricchezza prodotta. L’altro 80% deve spartirsi ciò che rimane e ancora una volta lo fa in maniera ingiusta. Tant’è il 20% più povero riceve un misero 1,3%.

Il dato riassuntivo dello scandalo che stiamo vivendo è rappresentato dal numero dei poveri assoluti. Di quelle persone, cioè, che non riescono a fare fronte neanche ai loro bisogni fondamentali come il cibo, l’acqua potabile, le cure mediche di base, l’istruzione primaria. Naturalmente non esistono statistiche accurate al riguardo e dobbiamo accontentarci di stime basate su parametri arbitrari. Ad esempio la Banca Mondiale definisce povero assoluto chiunque viva con meno di un dollaro al giorno e ha calcolato che in questa condizione si trova 1 miliardo e 200 milioni di persone. Ma la stessa Banca Mondiale si affretta ad informarci che se allarghiamo la nostra attenzione a quelli che stanno appena sopra la linea di demarcazione, questa cifra sale a 2 miliardi e 800 milioni. In conclusione si può affermare che il 50% della popolazione mondiale vive in condizione di povertà assoluta.

Anche altri indicatori ci fanno toccare con mano quanto sia squilibrato il mondo. Se ci concentriamo sui consumi scopriamo che il 20% più ricco consuma il 58% dell’energia mondiale, il 65% dell’elettricità, l’87% delle automobili, il 74% dei telefoni, il 46% della carne e l’84% dei giornali. Naturalmente ha anche il primato dei rifiuti. Ad esempio produce il 50% di tutta l’anidride carbonica emessa a livello mondiale. Anche l’impronta ecologica, il dato che descrive con un colpo solo l’impatto del nostro consumo sull’ambiente, rivela profonde disuguaglianze. In Italia l’impronta media è di 6 ettari pro capite, negli Stati Uniti è 12, in India è 1 e in Eritrea è 0,3.

Tanto squilibrio non è frutto del caso, ma di un ordine economico organizzato per servire la classe dei mercanti imprenditori. Da cinque secoli hanno l’interesse a rastrellare le risorse della terra per convogliarle nei loro paesi di appartenenza: l’Europa, il Nord America, il Giappone. In passato per impossessarci meglio della ricchezza altrui abbiamo anche occupato militarmente i paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Poi la coscienza collettiva non ha più tollerato il colonialismo e i paesi del Sud hanno conquistato l’indipendenza. Ma il colonialismo è continuato in forme più subdole: lo sfruttamento commerciale, lo sfruttamento del lavoro e il debito. Oggi che il gioco per le risorse si è fatto duro stiamo tornando di nuovo alle guerre di occupazione.

Stile di vita insostenibile

La parte più responsabile della popolazione del Nord si ribella a questo stato di cose e mentre rivendica la cancellazione del debito e una cooperazione più stringente per garantire una rapida uscita dalla povertà, dall’altra si batte per un nuovo ordine economico mondiale che garantisca guadagni dignitosi ai piccoli produttori, che arresti la devastante speculazione finanziaria, che ripristini la dignità del lavoro, che tuteli la natura e che difenda i beni comuni su cui contadini, pescatori e abitanti delle foreste basano la propria sopravvivenza.

Ma molti non sono coscienti delle scelte che dovremmo compiere noi, parte ricca del mondo, se l’equità diventasse una realtà. Quando pensiamo ad un mondo equo, lo immaginiamo popolato da famiglie che hanno tutte la casa riscaldata, la lavatrice, il frigorifero, l'automobile. Ma è dimostrato che questo mondo è impossibile perchè non ci sono abbastanza risorse per tutti, mentre il pianeta crollerebbe sotto il peso dei rifiuti. Se solo i cinesi avessero la nostra stessa concentrazione di automobili, l'aria di tutto il pianeta diventerebbe irrespirabile e l'effetto serra andrebbe alle stelle con conseguenze incalcolabili sul clima. Alcuni studiosi hanno calcolato che per estendere a tutto il pianeta il nostro stesso standard di vita ci vorrebbero altri 5 pianeti da utilizzarsi come campi, foreste, miniere, discariche di rifiuti. Ma di pianeti noi ne abbiamo uno solo e l'unica via d'uscita per garantire più benessere ai miseri è che noi ricchi riduciamo i nostri consumi. In fondo è come se il mondo fosse popolato da una moltitudine di scheletrici che convivono con pochi grassoni. Gli scheletrici hanno bisogno di mangiare di più, ma possono farlo solo se i grassoni accettano di sottoporsi ad una drastica cura dimagrante. In conclusione potremo costruire l'equità solo se accetteremo una prospettiva di sobrietà o, per dirla in un'altra maniera, solo se accetteremo di passare dall’economia dell’espansione all’economia del limite.

Il primo istituto a richiamare l'attenzione sulla necessità di ridurre i nostri consumi è stato l'Istituto per il clima di Wuppertal che ci ha dato anche dei numeri. Ad esempio ha calcolato che se volessimo essere equi, la Germania dovrebbe ridurre l'emissione di anidride carbonica dell'80%. Il calcolo è semplice: in tutto il mondo si producono circa 30 miliardi di tonnellate che divise per i 6 miliardi di persone che popolano il mondo, dà una produzione di 5 tonnellate a testa. La biosfera, tuttavia, può assorbirne solo 14 miliardi ossia 2,3 tonnellate a testa. In Germania la produzione procapite é di 12 milioni di tonnellate e cioè cinque volte di più. E’ facile concludere che in Germania la produzione procapite deve essere tagliata di 9,7 tonnellate ossia dell’80%. In concreto ciò significa che i tedeschi (e verosimilmente tutti gli europei) devono tagliare il consumo di petrolio, metano e carbone della stessa percentuale perché l’anidride carbonica si forma essenzialmente dalla combustione di queste risorse.

Sobrietà a tre rivoluzioni

La sobrietà è una prospettiva che ci sgomenta perché non sappiamo immaginare una vita diversa dall'opulenza e nella nostra fantasia si affacciano scenari di stenti e sofferenze. Eppure è possibile vivere bene con meno a condizione che si sappiano operare tre rivoluzioni:

Un altro stile di vita

Dobbiamo ridefinire il benessere come uno stato di soddisfazione di tutte le dimensioni umane compresa quella affettiva, sociale, spirituale, culturale. Dobbiamo stare attenti a non confondere il benessere con il bene avere.

Dobbiamo recuperare il concetto di essenzialità (senso di sufficienza, di sobrietà)

Dobbiamo consumare ispirandoci alle tre erre (ridurre, riusare, riciclare)

Dobbiamo consumare in maniera più collettiva (condivisione e servizi pubblici)

Un'altra tecnologia

Dobbiamo ridefinire il concetto di efficienza, non prendendo a riferimento i parametri monetari ma quelli materiali e sociali come le risorse impiegate, il tipo di energia utilizzata, gli inquinanti emessi, l'occupazione creata.

Dobbiamo utilizzare tecnologie a basso impatto ambientale

Dobbiamo utilizzare tecnologie sicure e controllabili

Un'altro modo di produrre

Dobbiamo orientarci verso la produzione di beni fatti per durare

Dobbiamo evitare produzioni inquinanti e pericolose

Dobbiamo limitare l’uso delle risorse non rinnovabili

Dobbiamo riciclare le materie prime

Dobbiamo utilizzare per quanto possibile energia naturale

Dobbiamo coltivare in maniera biologica

Dobbiamo valorizzare il lavoro umano

Dobbiamo esaltare il più possibile la dimensione locale per:

evitare sprechi nei trasporti

stimolare la presa in carico del proprio territorio

favorire l’occupazione

Dobbiamo diventare prosumatori almeno in ambito energetico e agricolo per utilizzare al massimo l'energia naturale diffusa e per evitare l'uso dei prodotti chimici.

Un'altra economia

Molti capiscono quanto sia urgente orientarsi verso la sobrietà, ma ne hanno paura perchè temono per le ricadute sociali. In particolare sono preoccupati per l'occupazione e per il benessere sociale. A dire il vero non hanno torto perchè in questo sistema i posti di lavoro dipendono dal livello di consumi. Insomma, com'è possibile garantire un posto di lavoro a tutti se consumiamo di meno? E come è possibile avere un buon livello di servizi pubblici se lo stato incassa meno tasse a causa del rallentamento dell'economia?

In effetti la grande sfida che abbiamo davanti è come coniugare sobrietà, piena occupazione e soddisfacimento dei bisogni fondamentali per tutti. Una sfida che possiamo vincere se sappiamo rivedere tre concetti di fondo: la programmazione, il lavoro, l'economia pubblica.

La priorità ai diritti

In una situazione di abbondanza si può lasciare che le risorse siano utilizzate in base ai capricci di ognuno. In altre parole si può lasciare che tutto sia gestito dalla spontaneità del mercato. Ma se ci si affida al mercato in un regime di scarsità può succedere che i prezzi salgano alle stelle e che il poco disponibile sia goduto solo dai ricchi. Ad esempio non ci sarebbe da stupirsi se il poco petrolio disponibile fosse accaparrato dai ricchi per fare il pieno alle loro automobili sportive mentre la maggior parte della popolazione soffre il freddo. Del resto è esattamente ciò che succede oggi a livello mondiale: mentre una minoranza vive nel lusso più sfrenato, i più non hanno neanche il minimo vitale.

Per evitare questo assurdo, bisogna prendere esempio dalle famiglie. Nelle nostre case non si spende a casaccio, ma si programmano le spese. Prima si pensa al mangiare, al vestire, alla scuola, alla salute. Poi, se avanzano dei soldi, si pensa ai divertimenti. Tradotto a livello di sistema, prima si garantiscono i bisogni fondamentali di tutti. Poi si lascia spazio alle voglie personali.

Ma per operare questo tipo di scelta bisogna avere due o tre chiarezze in testa. La prima è che il compito primario dell’economia è di garantire a tutti un livello di vita dignitoso. La seconda è che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti, dalla culla alla tomba, indipendentemente se ricchi o poveri. La terza è che i diritti non posso essere affidati al mercato, ma alla comunità organizzata. Il mercato, infatti non dà a chi ha bisogno, ma a chi ha soldi da spendere. La comunità, invece, garantisce anche i deboli e i nullatenenti perchè si basa sul principio della solidarietà.

Ecco perchè un economia che voglia essere al tempo stesso sobria e dignitosa deve dotarsi di una forte economia pubblica dedicata ai bisogni fondamentali come il cibo, il vestiario, l’energia, l’alloggio, la sanità, l’istruzione, i trasporti pubblici, la protezione civile, la cura del territorio, le comunicazioni. Un'economia pubblica che naturalmente ha la precedenza nell'accesso alle risorse, perchè i diritti hanno la preminenza sui desideri.

Ciò non significa eliminazione dell'economia di mercato basata sull'iniziativa privata. Significa attribuirle un posto di subordine e limitarla a quella sfera produttiva che non intacca la dignità delle persone.

In quest'ottica programmare significa parlare di cose molto concrete. Quanto petrolio e carbone possiamo bruciare e per quali scopi vogliamo utilizzarlo? Quanto per il trasporto pubblico e quanto per quello privato? Quanto per i riscaldamenti? Quanto per l’industria e per produrre cosa?

Quali risorse naturali possiamo sfruttare per produrre energia elettrica? Quanta ne andrà riservata per l’illuminazione delle case? Quanta per quella pubblica? Quanta per far funzionare le fabbriche?

Come possono essere utilizzati al meglio i terreni agricoli e i boschi? Cosa possiamo produrre per gli scambi con l’estero?

Programmazione e partecipazione

Le cose da programmare sono veramente tante e il problema che si presenta è chi dovrebbe programmarle. A questo punto nella nostra mente si affacciano i mostri della pianificazione centralizzata di stalinista memoria e ci viene fatto di rigettare tutto. Ma perchè non immaginare una programmazione frutto della partecipazione di tutti?

Ad esempio di potrebbe immaginare la programmazione come una rete funzionante alla stregua dell’organismo umano. Pur avendo un cervello che sovraintende alle funzioni di tutto l’organismo, di fatto ogni organo funziona per conto proprio in un rapporto di stretta collaborazione con gli altri. Schematicamente si potrebbero prevedere tre livelli di programmazione: locale, regionale e nazionale. Quello locale potrebbe coincidere con gli attuali comuni o con un insieme di comuni di una stessa vallata, di uno stesso monte, di uno stesso tratto di mare. Insieme potrebbero definire come gestire al meglio le risorse del proprio territorio e come organizzare una serie di servizi di livello locale. Dunque ogni comunità locale avrebbe un proprio spazio di programmazione autonoma. Ma nello stesso tempo dovrebbe tenere conto delle decisioni prese al livello regionale e nazionale, in modo da armonizzare le proprie scelte con le necessità delle altre comunità. In definitiva al livello nazionale si dovrebbero definire e fissare i grandi obiettivi e le grandi scelte sociali, ambientali e produttive. A livello locale si dovrebbe fare la programmazione minuta e a livello regionale si dovrebbe stabilire come saldare l’attività locale con i grandi obiettivi nazionali.

Da un punto di vista organizzativo, a livello locale si potrebbero anche pensare delle forme di partecipazione diretta tramite referendum, comitati di zona e di quartiere. A livello regionale e nazionale, invece, bisognerebbe ricorrere ad organi eletti. Ma si dovrebbe pensare ad assemblee che rappresentano davvero le comunità locali affinchè le decisioni siano prese in maniera più coordinata possibile.

Programmazione e consenso

Programmare é possibile e necessario. Il problema, caso mai, sarà come indurre la gente e le imprese a seguire le direttive. Le prime cose che vengono in mente sono le leggi, i carabinieri, la prigione. Ma l’equità non si può costruire col terrore. E’ una contraddizione e non porta a niente. La giustizia si ottiene se la gente la vuole e la vuole solo se ha dentro di sè dei valori profondi. Ecco perché il caposaldo di una società di giustizia é l’educazione. Così come la società consumista si sforza per stimolarci all’avidità, all’egoismo, all’arroganza, così la società sostenibile dovrà sforzarsi per educarci al distacco dalle cose, al rispetto dei diritti altrui, alla democrazia.

Fatto questo é anche saggio lasciarsi guidare dal sano realismo di chi sa che la perfezione non é di questo mondo. In altre parole bisogna sapere anche prendere delle misure che fanno leva sul tornaconto personale.

Qualcuno dice che un’arma formidabile per orientare le scelte delle imprese è quella bancaria. Immaginate se le banche fossero di proprietà pubblica e fossero gestite localmente da comitati popolari che danno prestiti non tanto in base alle prospettive di guadagno delle imprese, ma in base alla loro aderenza ai programmi pubblici e al loro impegno per ridurre l’emissione di inquinanti e l’uso delle risorse. Volenti o nolenti le imprese dovrebbero adeguarsi!

Qualcun altro, afferma che il mezzo più efficace per orientare le scelte delle imprese e della gente é quella fiscale perchè le tasse si possono usare come carota o come bastone. Funzionano come carota quando si prevedono sconti e agevolazioni. Funzionano da bastone quando prevedono degli aumenti.

Ad esempio già oggi circola la proposta delle ecotasse che dovrebbero consistere in sovrapprezzi da applicare alla benzina e al metano per scoraggiare il loro acquisto. Ecco un esempio concreto di inasprimento fiscale che può orientare il comportamento della gente.

Di idee in campo fiscale ne possono venire centomila: dalla istituzione di una tassa sulle emissioni degli inquinanti a una riduzione delle tasse sui prodotti locali, da un aumento del prezzo dell’energia elettrica ottenuta col petrolio, alle sovvenzioni per l’allestimento dei pannelli solari. Il problema, caso mai, è che la leva fiscale usata come bastone può accentuare le ineguaglianze sociali.

Lo scopo degli inasprimenti fiscali é di scoraggiare gli acquisti facendo aumentare i prezzi. Ma questa manovra condiziona soprattutto chi guadagna poco. Ad esempio, di fronte ad un rincaro consistente della benzina, le famiglie che guadagnano poco potrebbero addirittura smettere di comprarla. Quelle che guadagnano tanto, invece, continuerebbero a fare il pieno all’automobile. Niente vieta, però, di utilizzare le tasse pagate dai ricchi per finanziare dei servizi di trasporto pubblico fornito a prezzo molto basso o addirittura gratuito. Ecco un esempio concreto del modo in cui si potrebbe conciliare l’equità con la sobrietà.

Il "fai da te" per la piena occupazione

C’è tutto un filone di pensiero che sta studiando come utilizzare al meglio le ecotasse. E’ certo, tuttavia, che per consentire a tutti di vivere dignitosamente in una società che dispone di meno, non basterà riformare le tasse. Contemporaneamente bisognerà fare un’altra grande scelta: bisognerà diminuire la dipendenza dal denaro. Ciò risulta particolarmente evidente se ci poniamo l’obiettivo di risolvere un problema che già oggi rappresenta una grave piaga sociale: la disoccupazione.

Questo sistema parte dalla logica che il solo modo che abbiamo a disposizione per soddisfare i nostri bisogni è di comprare ciò che ci serve. Dunque il solo modo che abbiamo a disposizione per campare é di avere un lavoro retribuito. In conclusione la nostra sopravvivenza dipende dalla decisione dei padroni di creare posti di lavoro. Ma i padroni, a loro volta, affermano che possono creare nuovi posti di lavoro solo se aumentano le vendite. In definitiva i posti di lavoro si creano solo se l’economia cresce.

Così ci troviamo di fronte ad un dilemma angosciante: ridimensionare l’economia per salvare l’ambiente o espanderla per favorire l’occupazione? Apparentemente questa sembra una contrapposizione che non ha vie d’uscita. Eppure, se entriamo nella logica di dare meno spazio al denaro, ci accorgeremo che esistono delle soluzioni.

Il segreto per favorire la piena occupazione in un’economia che non può e non vuole crescere è di rompere il legame fra vendite e lavoro. In altre parole dobbiamo abbandonare l’idea che lo scopo del lavoro è di guadagnare un salario e convincerci che lo scopo del lavoro è di soddisfare i nostri bisogni. Se entriamo in questa logica ci renderemo conto che per soddisfare tante necessità non c’è bisogno di passare attraverso l’acquisto ma che possiamo arrangiarci da soli.

Già oggi ci sono tante situazioni in cui adottiamo questa soluzione. Ad esempio solo poche famiglie hanno i domestici. Nella maggior parte dei casi le faccende domestiche sono fatte dai genitori e dai figli via via che crescono.

Ogni volta che facciamo qualcosa da noi, è come se ci fossimo creati un po’ di occupazione senza obbligare l’economia a crescere. Per questo dovremmo sforzarci per espandere la logica del "fai da te" a tante altre situazioni come le piccole riparazioni, la cucitura dei vestiti, la cura dei nostri figli, la coltivazione delle nostre verdure.

In un mondo in cui il "fai da te" fosse molto sviluppato, più nessuno si considererebbe totalmente disoccupato. Ciò non si significa che non ci sarebbe più bisogno del lavoro retribuito. Significa, però, che il suo ruolo sarebbe ridimensionato e che non sarebbe considerato come l’unica forma di occupazione. Allora ecco delinearsi una società in cui ogni persona non ha una sola attività, ma tante, alcune delle quali pagate e altre non pagate. Maggiore è il ricorso alle forme non pagate, maggiori sono le probabilità di creare piena occupazione senza far crescere l’economia.

Il "fai da te" non è l’unica forma di lavoro non pagato che possiamo utilizzare per soddisfare i nostri bisogni. Un’altra possibilità è quella di scambiarsi i servizi: l’imbiancatura di una stanza in cambio della cucitura di un vestito, la traduzione di una lettera in cambio di una lezione di musica. In questo modo espanderemmo l’occupazione e moltiplicheremmo i bisogni che possiamo soddisfare in maniera gratuita.

Certo, affinché la cosa funzioni bene, bisognerebbe creare dei meccanismi che consentano alla gente di scambiarsi i servizi in una forma diversa dal baratto. E’ raro infatti che si incontrino proprio le persone che hanno l’una bisogno dell’altra. La soluzione è di lasciare alla gente la libertà di creare delle forme di pagamento autonome per lo scambio di servizi all’interno di un gruppo o di una comunità. In fondo si tratterebbe di lasciare la libertà ad ogni comunità di creare la propria moneta.

Per quanto possa sembrare bizzarro che all’interno di uno stesso paese possano coesistere una moneta nazionale e tante monete locali, la cosa non è impossibile perchè esistono già delle esperienze del genere.

Dalla tassazione del reddito alla tassazione del tempo

Se ci pensiamo bene, un altro ambito in cui possiamo soddisfare i nostri bisogni fornendo lavoro invece di denaro è quello dei servizi pubblici. In altre parole noi immaginiamo una società che fa pagare meno tasse e in alternativa chiede alla gente di mettere a disposizione un certo numero di ore, al mese o alla settimana, per svolgere delle attività al servizio della collettività. Certo nessuno può improvvisarsi chirurgo o macchinista, ma tutti siamo in grado di spazzare una corsia d’ospedale, di imboccare un malato allettato o di portare via della biancheria sporca. In effetti ci sono tantissime mansioni che ciascuno di noi può svolgere pur non avendo fatto studi particolari o tutt’al più avendo seguito brevi corsi di formazione.

Una scelta di questo tipo avrebbe vari vantaggi:

  1. responasibilizzerebbe la gente rispetto ai beni comuni
  2. offrirebbe una nuova prospettiva alla vita. Oggi la vita è organizzata in compartimenti stagni: c’è un’età per lo studio, un’età per il lavoro e un’età per l’ozio. Ma questa suddivisione è artificiale perchè la vita più soddisfacente è quella che consente di mescolare di continuo studio, lavoro e lunghi periodi di riposo.

    In ogni caso per i giovani non è educativo rimanere di peso fino a tarda età, così come per gli anziani non è salutare che di punto in bianco passino dalla totale attività alla totale inutilità. Un modo per superare almeno in parte questi inconvenienti è proprio quello di fare partecipare tutti ai servizi pubblici perchè si potrebbero coinvolgere sia i ragazzi che gli anziani. Ai primi si potrebbe chiedere di fare dei turni di lavoro per mantener in buone condizioni i loro edifici scolastici e altri beni pubblici. Ai secondi di svolgere piccoli servizi di pubblica utilità come la vigilanza di giardini pubblici, la presenza nei musei, il sostegno nelle scuole.

    Certo tutto ciò è possibile solo se c’è un profondo legame fra comunità e cittadini. Ma il legame non nasce dal nulla. Si costruisce giorno per giorno attraverso la partecipazione ed il coinvolgimento.

  3. garantirebbe all'economia pubblica tutto il lavoro di cui ha bisogno senza costringere l'economia a crescere. Oggi c’è un nesso inscindibile fra crescita e servizi pubblici, perché l’economia pubblica è considerata una sorta di appendice di quella privata. Se quest’ultima cresce, la gente paga più tasse e lo stato può fornire più servizi. Se ristagna, la gente paga meno tasse e i servizi diminuiscono. Così si può arrivare all’assurdo che pur avendo molti bisogni da soddisfare e molti disoccupati da occupare, di fatto la macchina sta ferma semplicemente perché lo stato non ha i soldi per pagare i salari.
Per evitare questa situazione assurda va ribaltata la concezione economica. Bisogna smettere di considerare l’economia pubblica come una variabile dipendente dell’economia privata. Al contrario dobbiamo considerarla come un’attività autonoma, che genera ricchezza al servizio di tutti, tassando in via prioritaria la risorsa più diffusa che è il tempo.

In concreto tutti dovremmo dedicare qualche ora del giorno, qualche giorno della settimana o qualche mese dell'anno all'economia pubblica, almeno negli ambiti meno specializzati come la cura degli edifici pubblici, l'igiene delle città e del territorio, l'assistenza infermieristica di base. In cambio ognuno avrebbe diritto a ricevere:

  1. l’accesso gratuito ai servizi fondamentali, comprendenti, forse, anche i trasporti e le comunicazioni (niente biglietti, niente ticket, niente burocrazia, niente redditometro)
  2. una sorta di reddito di esistenza, dalla culla alla tomba, per procurarsi i beni materiali fondamentali.
Questa prospettiva ci affascina, ma al tempo stesso ci spaventa perchè abbiamo visto fallire troppe esperienze comunitarie per scarsa onestà e scarso senso di responsabilità. Così facciamo dietrofront e torniamo fra le braccia di chi canta le lodi dell'individualismo. Ma è una forzatura dire che l'essere umano è solo egoismo. La verità é che siamo complessi. Siamo egoisti, ma anche generosi. Siamo individualisti, ma anche legati al branco. Siamo opportunisti, ma anche onesti. Siamo abbastanza stupidi da credere di avere il massimo vantaggio se pensiamo solo per noi, ma abbastanza intelligenti da capire che da soli andiamo poco lontano. Allora il problema è di carattere educativo. È troppo facile invitare al privato, all'individualismo, all'usurpazione, allo sgambetto e poi stupirci perchè in giro c'è poca solidarietà, scarso senso di responsabilità collettiva, poca onestà verso il pubblico. Proviamo ad educarci a questi altri valori e forse riusciremo a farli radicare. È arrivato il tempo di cambiare il concetto di capitale. Il capitale, ossia la cosa che più conta, non è il denaro o la ricchezza materiale che può essere corrosa dalla intemperie, ma la coesione sociale che è indipendente dall'energia disponibile o dalle crisi economiche.

Visione d’insieme di un'economia equa e sostenibile

In concreto potremmo pensare a una doppia economia: una dei bisogni fondamentali e una dei desideri. La prima a gestione pubblica, la seconda a gestione privata.

Fra gli interstizi dell’una e dell’altra si collocherebbe l’economia del "fai da te" e degli scambi di economia locale per il soddisfacimento dei bisogni domestici e personali di facile soluzione.

Sfide globali

La consapevolezza di non poter disporre di tutte le risorse che desideriamo e di non poter inquinare quanto vogliamo, ci obbliga a profondi capovolgimenti anche a livello internazionale.

Oggi il principale obiettivo perseguito a livello internazionale è l'espansione del commercio e degli affari. Invece dovremmo mettere al primo posto la difesa dei beni comuni. Quando pensiamo a ciò che ci serve per vivere dignitosamente, la nostra mente corre ai prodotti trasformati: il cibo, il vestiario, i mezzi di trasporto, i farmaci. Ma dimentichiamo che la vita si fonda su alcuni elementi che la natura mette gratuitamente a disposizione di tutti e proprio perché sono indivisibili possono essere definiti "beni comuni". Di sicuro ricadono sotto questa categoria l’aria, il sole, la pioggia, il vento e tutti gli altri elementi che concorrono alla determinazione del clima, un fenomeno di fondamentale importanza per l’agricoltura, per la salute e per vari altri equilibri naturali. Ma, a ben guardare, possiamo definire beni comuni anche altre risorse che sono determinanti per la nostra esistenza: l’acqua, le foreste, i pesci, il petrolio, il gas, e molte altre ricchezze ancora. Eppure noi oggi stiamo facendo scempio di tali risorse. Ad esempio stiamo utilizzando il petrolio in maniera irresponsabile perché all’attuale ritmo di sfruttamento, le riserve note si esauriranno nel giro di 40 anni. L’acqua sta diventando così rara da essere causa di guerre future. Il pesce dei mari si sta assottigliando in maniera pericolosa.

Di fronte a questa situazione ci dobbiamo fermare e convincerci che stiamo tagliando il ramo su cui sediamo non solo noi che viviamo oggi, ma su cui siede anche l’umanità che verrà. Dobbiamo capire che senza i beni comuni non esisterà più vita per nessuno. Pertanto dobbiamo accettare di fare della difesa dei beni comuni il nostro obiettivo primario. Il che significa che fra i patti che dobbiamo essere capaci di fare come umanità, il primo deve essere proprio quello per la difesa del clima, dell’acqua, delle foreste, dei mari, del petrolio, del gas. Come umanità dobbiamo impegnarci solennemente a salvaguardare i beni comuni e dobbiamo accordarci per gestirli in maniera equa e sostenibile, vale a dire tenendo conto delle necessità delle generazioni future e dello stato di bisogno in cui si trova ogni popolo.

Il secondo grande obiettivo che dobbiamo porci è di garantire a tutti almeno il soddisfacimento dei bisogni fondamentali come il cibo, il vestiario, l’alloggio, la sanità, l’istruzione, i trasporti. Anche rispetto a questo obiettivo sarebbe fondamentale che l’umanità facesse un’altra grande dichiarazione solenne affermando che ci sono dei diritti umani, sociali ed economici che nessuno può trasgredire: né le multinazionali, né gli stati, né le istituzioni internazionali. Al contrario, tali diritti devono essere presi a riferimento per disciplinare il commercio internazionale, per regolamentare l’attività delle multinazionali, per orientare l’attività del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

A partire da queste priorità ci renderemmo conto che non potremo più porci come obiettivo l’espansione ad oltranza della produzione e del commercio ma che dovranno essere effettuate scelte produttive programmate seguendo scelte tecnologiche e commerciali che riducono al massimo l’uso di energia e di risorse.

Non è qui il caso di analizzare tutti i cambiamenti di carattere tecnologico economico e culturale che andrebbero introdotti per raggiungere questo obiettivo e limitandoci alle ripercussioni in ambito commerciale ne deriva subito un principio: le materie prime e le merci devono viaggiare il meno possibile perché ciò consente risparmi da un punto di vista energetico ed evita emissione di inquinanti dannosi. Insomma ci si rende conto che la sostenibilità non si concilia né con la globalizzazione, né con l’espansione del commercio internazionale. La sostenibilità obbliga al principio opposto e cioè che l’economia deve essere il più possibile locale. Il futuro dell’economia non è la globalizzazione ma la localizzazione.

Esaltare l’economia locale non significa tornare all’autarchia, ma ricercare il più possibile la soluzione dei propri bisogni in ambito locale ricorrendo ai beni che vengono da lontano quando il proprio territorio non offre soluzioni adeguate o quando le condizioni sono tali per cui la bilancia energetica pende a favore dei prodotti importati. Pertanto l’intensità degli scambi in un’ottica di economia sostenibile sarà per cerchi concentrici: molto fitti a livello locale e sempre più rarefatti via via che si procede verso il livello mondiale. Dobbiamo dotarci di strumenti politici e giuridici che scoraggino il movimento delle merci. Da un punto di vista internazionale la strada è senz’altro quella di stipulare un accordo commerciale che ponga il principio della localizzazione al primo posto. In altre parole si tratta di riconoscere alle nazioni il diritto-dovere di poter applicare dazi doganali differenziati in base alla distanza percorsa dalle merci affinché quelle che hanno dovuto viaggiare di più risultino più care di quelle provenienti dai paesi limitrofi. In definitiva dovremmo introdurre delle eco-tasse di tipo internazionale.

Alcuni passi per spingere il sistema verso un sistema equo e sostenibile

Vecchiano, 27 agosto 2003, relazione presentata nell’ambito del corso organizzato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo in collaborazione con il Cesvot, "Economia Sobria e Solidale come Economia Equa e Sostenibile"

Archivio (online o pdf):

  1. pdf L’Albero Pazzo 2
    Maggio 2002
  2. pdf L’Albero Pazzo 3 - 4
    Luglio 2002
  3. pdf L’Albero Pazzo 5
    Novembre 2002
  4. pdf L’Albero Pazzo 6
    Febbraio 2003
  5. pdf L’Albero Pazzo 7
    Aprile 2003
  6. pdf L’Albero Pazzo 8 - 9
    Luglio - Agosto 2003
  7. pdf L’Albero Pazzo 10 - 11
    Dicembre 2003
  8. pdf L’Albero Pazzo 12
    Settembre 2004