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Sommario:

  1. Editoriale
  2. Il viatico
  3. Conflitti
  4. Bambini
  5. Stili di vita
  6. Cibi
  7. Terra, Acqua, energia
  8. Speciale Meeting di San Rossore sui cambiamenti climatici, luglio 2004
  9. Media
  10. Campagne e movimenti
  11. Diritti
  12. Culture
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Nonviolenza, conflitto, resistenza, stili di vita

di

Nanni Salio

Nanni Salio, animatore del Centro Sereno Regis di Torino, è anche il segretario dell'IPRI (Italian Peace Research Institute). L’intervento che pubblichiamo è un’ampia sintesi del seminario da lui tenuto a Sant’Anna di Stazzema nell’agosto del 2003 nell’ambito dell’VIII Campo di Educazione alla Pace, "La Memoria e la Pace", organizzato dal Parco della Pace di S. Anna di Stazzema, dal Comune di Stazzema, dal Comitato per le Onoranze ai Martiri di S. Anna, dal Corso di Laurea in Scienze della Pace dell’Università di Pisa, e dal Gruppo Jagerstatter per la Nonviolenza (Pisa).

Presso il Centro Sereno Regis ci occupiamo della promozione della cultura della nonviolenza lavorando su vari filoni. Facciamo un'attività formativa e di educazione alla pace e alla nonviolenza e poi ci occupiamo delle tematiche (eco-eco) di ecologia ed economia dal punto di vista della nonviolenza. Ci sono diversi ambiti e problemi sui quali si possono porre delle domande. Primo, la definizione della nonviolenza, che cos'è a livello teorico. Secondo, che cosa vuol dire resistenza, e perché e soprattutto resistere a che cosa e a chi, che è un tema per così dire in negativo. Terzo filone è il programma costruttivo, termine usato soprattutto da Gandhi, che potremmo definire come la proposta in positivo. Che cos'è una società nonviolenta? Quali sono le situazioni, le percezioni che ognuno di noi ha della violenza, e quello che dovrebbe cambiare? Avete mai provato a riflettere su cosa potrebbe essere uno stile di vita nonviolento, che cosa comporta? Quindi tre sono gli ambiti di intervento: uno di carattere generale, un secondo è la parte in negativo, che cos'è che non va e che cosa fare per reagire, e un terzo è la parte di proposizione in positivo che investe ambiti anche molto diversi, compresa la sfera relazionale e interpersonale su piccola scala, nella vita quotidiana, e non solo i macroproblemi. La nonviolenza può avere un carattere individuale o collettivo, cioè può essere agita a titolo esclusivamente personale e individuale o collettivamente, e quindi può avere una dimensione politica.

Se prendiamo la sfera individuale e religiosa la nonviolenza diventa prevantemente di tipo esistenziale e filosofico. Ovviamente può essere collettiva nel senso delle grandi religioni. Tutte le grandi religioni hanno un contenuto nonviolento più o meno esplicitato e più o meno praticato. Il buddismo, l’Islam, il cristianesimo, l’ebraismo hanno un contenuto di nonviolenza che spesso è stato trascurato, calpestato, ma che comunque è una dimensione fondamentale dal punto di vista delle culture. Un confronto fra le culture avviene sicuramente attraverso le religioni, non è il solo parametro oggi, ma rimane uno di quelli fondamentali.

Anche la visuale politica non esclude eventuali motivazioni di ordine religioso. Personaggi come Pietro Pinna, che nel 1949 diede inizio alla prima obiezione di coscienza vera e propria in Italia, è un esempio di questo tipo. Lui da solo, nel 1949, fu considerato un visionario, un folle la cui azione non avrebbe avuto alcun significato, mentre invece dopo 23 anni si è tradotta in una legge dello Stato, ha dato luogo al movimento che è nato proprio a partire da quel suo gesto, ed ha prodotto nell'arco di due decenni un risultato politicamente concreto. Questa è la nonviolenza di testimonianza. Come Franz Jagerstatter (1), di cui ricorre il sessantesimo anniversario, altro esempio di persona che si è immolata senza che immediatamente ci fosse nessuna speranza che questa sua azione producesse degli effetti concreti e immediati. Poi ci sono i movimenti nonviolenti che operano nel tempo con risultati più o meno alterni ed hanno come obiettivo politico di dare una fisionomia al movimento stesso, come Beati Costruttori di Pace e Pax Christi, alcuni con motivazioni di tipo religioso e altri di tipo laico, ci sono i movimenti per la pace che sono distinti dai movimenti nonviolenti anche se spesso c'è una parziale sovrapposizione fra loro. C'è quindi chi ha più sensibilità per un coinvolgimento nella vita quotidiana e c'è chi ha maggiore sensibilità per la vita politica collettiva, però la mappa della non violenza comprende tutto questo. Perchè la nonviolenza come atteggiamento ideale è il tentativo di costruire una cultura che rifiuta sempre di più la violenza non necessaria. Dove per non necessaria si intende la violenza esercitata dall'uomo. C'è una violenza intrinseca, forse, nella sofferenza e nel dolore che sperimentiamo come esseri umani finiti, inevitabile, ma c'è una violenza che connotiamo come violenza intenzionale, aggiunta dall'uomo, sotto forma di violenza diretta, violenza culturale e violenza strutturale. Una cultura della nonviolenza mira a eliminare o a ridurre quanto più possibile questi tipi di violenza.

La quantità di violenza è misurabile e stimabile. Per esempio la violenza strutturale è circa da dieci a trenta volte superiore a quella diretta. Quindi non va assolutamente trascurata o considerata secondaria. Però l'attenzione generale suscitata dai media, e spesso anche la nostra, è incentrata soprattutto sulla violenza diretta, la guerra in particolare, anche se le vittime della violenza strutturale sono enormemente più numerose, solo che non lo diventano tutte quante insieme. La violenza culturale è la più sottile e più difficile da estirpare ed è la principale responsabile delle altre forme di violenza. È attraverso la cultura che noi giustifichiamo le altre forme di violenza. La violenza culturale è una giustificazione, un prodotto della cultura umana. Qui si apre subito una questione che val la pena di accennare e poi subito accantonare. C'è un dilemma che viene sempre proposto, e cioè se la violenza sia un fatto radicato nella natura umana, nel suo DNA, oppure no. Gli studi ai quali facciamo riferimento ci permettono di sostenere che la violenza è un prodotto culturale e non da attribuirsi alla natura umana. La natura umana è plasmabile, l'uomo può diventare sia violento, sia un essere assolutamente nonviolento. E quindi una delle ipotesi che noi stiamo cercando di perseguire è la promozione di una cultura della nonviolenza. Le cose non sono così banali, così semplici, ovviamente, ci si potrebbe dilungare, prendere in considerazione degli aspetti che hanno a che fare con la dimensione propriamente psicologica, in certi casi psichiatrica, di gruppi di persone, gruppi minoritari, o andare a indagare la psicologia del profondo, intesa sia a livello individuale che a livello collettivo, alla Jung, ma sono tutti effetti che in una certa misura riconducono alla dimensione della cultura. Anche alcuni nazisti non si sono comportati da nazisti. Proprio qui a Sant’Anna alcuni racconti testimoniano che uno di questi giovani nazisti ha sparato per aria per far sì che si credesse che aveva adempiuto al suo compito di morte e, contemporaneamente, permettere alla gente di ripararsi e fuggire alla meglio. In questo caso siamo nel cuore dello stesso evento, non lontano nel tempo, fra persone che hanno mantenuto nonostante tutto la loro umanità e non sono stati travolti da questi progetti di deumanizzazione. Questa è una domanda niente affatto banale, è una delle domande cruciali con le quali abbiamo a che fare, anche nella vita quotidiana. Ci sono dei processi di deumanizzazione o di riduzione del nostro potenziale di umanità ai quali andiamo incontro e che possiamo accettare o rifiutare. Una domanda introduttiva che si potrebbe formulare è questa: esistono oggi delle società che potremmo definire con buona approssimazione società nonviolente? Prima di rispondere, solo per precisare ulteriormente: quando noi ci riferiamo a noi stessi, ad un gruppo di persone, ad un movimento, ad un'associazione, come possiamo parlare di noi stessi, possiamo parlare tout court di nonviolenti? Questo sarebbe un errore, linguistico e concettuale. Noi possiamo parlare di noi stessi come di amici della nonviolenza, persuasi della nonviolenza, due termini capitiniani che sono volutamente modesti. È come dire che noi abbiamo preso come orizzonte della nostra vita la ricerca di uno stile di vita personale e collettivo che si ispira agli ideali della nonviolenza, ma siamo consapevoli dei nostri limiti, spesso anche del grado di implicazioni violente, più o meno gravi, che ancora ci sono nel nostro agire, in particolare nel nostro agire quotidiano. Ecco, parlare di noi stessi può avvenire attraverso questa sfumatura. Allora, quando si parla di società nonviolente, pensando alla domanda fatta prima, come facciamo a rispondere? Per rispondere c'è un grado di nonviolenza in queste società che noi riconosciamo, che potremmo cercare di valutare attraverso degli indicatori quantitativi e qualitativi. Coloro che hanno provato a occuparsi di queste cose (antropologi per esempio), persone che studiano e operano nell'ambito della ricerca per la pace, hanno individuato circa una sessantina di esempi di società nonviolente presenti oggi, più altre presenti in passato e che oggi o sono scomparse o per qualche ragione non sono più da prendere in considerazione. Che caratteristiche hanno in genere queste società? Possono essere un'ispirazione per noi? Esse sono società di piccola scala, società spesso con basso grado di industrializzazione – società che noi saremmo portati a chiamare società altre o primitive. Hanno un bassissimo grado di violenza diretta, interpersonale, di omicidio e di suicidio - che è un indicatore ben preciso; infatti possiamo contare il numero di vittime che ci sono nella società italiana, in quella europea e in quella degli Stati Uniti per scoprire che negli Stati Uniti hanno un indice di violenza più o meno dieci volte superiore a quello dell'Italia. Quindi alcuni indicatori ci permettono di individuare degli esempi. Esse sono società che hanno stabilito un rapporto più equilibrato, sostenibile e armonioso con l'ambiente e il mondo naturale inteso in senso lato, e perseguono un utilizzo delle risorse che non mette a repentaglio la loro sostenibilità. Noi invece abbiamo creato una società che è molto ricca materialmente (apparentemente) con un grande disagio nel vivere, con un bassissimo grado di sostenibilità e, all'opposto, un alto grado di insostenibilità, almeno stando a un'opinione sufficientemente diffusa, anche se non condivisa totalmente. Ovviamente quando si entra nel terreno della valutazione, della comparazione di società diverse, bisogna sempre essere consapevoli che entriamo in un terreno estremamente compromesso, contradditorio, che è molto difficile da valutare, sia nella comparazione fatta oggi sia rispetto al passato. Infatti molti elementi, molti dati non sono facilmente comparabili per tante ragioni, quindi bisogna essere cauti. Sicuramente ci sono persone che vi dicono il contrario. Per esempio, una delle argomentazioni che sentiamo spesso portare è questa: "però l'indice della speranza di vita è molto più elevato oggi nelle nostre società con tutti questi elementi di insostenibilità di quanto non fosse nel passato o di quanto non sia nel presente in altre società". Questo è un dato dal quale si può partire e poi discutere il pro e il contro di questa affermazione, ma è solo un esempio di come, ragionando di questi termini, qualcuno vi potrebbe dire: ma questo è chiaramente un indice di riduzione della violenza, intesa come violenza della natura, intesa come morte, anche se non inflitta ma dovuta a cause naturali.

Ora passiamo al concetto di resistenza. Si è soliti pensare che il secolo scorso sia giustamente, dal punto di vista quantitativo, il secolo più violento della storia umana. Molto più violento anche di questi due, tre anni del nuovo millennio. Tutto quello che è avvenuto, le guerre in corso, non sono paragonabili a ciò che si è verificato durante la seconda guerra mondiale in termini di intensità e di violenza. La televisione è solita richiamare Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, e il numero delle vittime è stato circa 50 milioni, di cui metà militari e metà civili. Cifre di questo genere non vengono raggiunte per fortuna durante le guerre in corso. Ovviamente questa non è una buona giustificazione per non preoccuparsi, per non vedere le ombre proiettate nel futuro, ma è solo per ridimensionare. Al tempo stesso il secolo scorso è stato però, da un altro punto di vista, un tempo che ha dato vita ad alcune delle forme di lotta e di resistenza nonviolenta fra le più interessanti. Sono tutte quelle che più o meno tutti conosciamo, non c'è bisogno di ricordare Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, ma in particolare la resistenza civile non armata contro il nazismo. C'è un libro di Jacques Sémelin che introduce questo tema con molteplici esempi. In particolare uno degli esempi più fulgidi che vale sempre la pena di ricordare è quello delle donne della Rosenstrasse che nel marzo 1943 a Berlino sono state capaci con un'azione di resistenza civile di scendere in piazza sotto la sede della Gestapo per protestare contro l'arresto dei loro mariti, un migliaio, ebrei, che erano sposati con queste donne di origine ariana. Sono rimaste a protestare per circa una settimana, nonostante le minacce esplicite delle SS e della Gestapo, e questi uomini sono stati liberati. E’ uscito un testo in italiano intitolato appunto "Le donne che sconfissero Hitler", molto interessante e bello per capire come anche nel cuore del potere nazista sarebbe stato possibile, è stato possibile, anche se in questo unico esempio, riuscito, un significativo gesto di resistenza. L'autore ne ricostruisce molti altri su scala europea, fermandosi peraltro a una certa data, il 1943, quindi non prendendo in considerazioni altri esempi successivi. Il libro di Jacques Sémelin è intitolato "A mani nude contro Hitler", e c'è anche nell'edizione francese perchè l'autore è appunto francese, fa parte del Mouvement pour une Alternative Nonviolente, l'equivalente in Francia del Movimento Nonviolento, ed è uno studioso che si è occupato della resistenza in questo periodo storico.

C'è poi la resistenza contro i sistemi autoritari e totalitari di tipo socialista sfociata nel 1989 nel grande cambiamento che ha visto l'implosione di questi sistemi, prima nei paesi dell'Est europeo e poi nell'Unione Sovietica. Ovviamente non tutto quello che è successo dopo è avvenuto all'insegna delle speranze che molti avevano coltivato, anzi, sono avvenute delle cose che sicuramente sono andate in senso contrario. Ciò non toglie che quell'esempio, quell'episodio sia da studiarsi come un caso emblematico di resistenza civile non armata contro dei sistemi di governo totalitario. Allora c'è da chiedersi che cosa si può fare nei regimi democratici; uso il termine regime in senso lato ma anche con un pò di ironia perchè le nostre democrazie sono diventate delle oligarchie, e non sono più delle democrazie autentiche. La nostra in particolare e quella degli Stati Uniti, non si sa quale delle due sia peggio, e altre democrazie, quella inglese, quella francese. In generale c'è un'opinione comune tra molti politologi nel ritenere che queste nostre democrazie siano false, perchè c'è una concentrazione di potere che contraddice una delle idee chiave della democrazia che è il decentramento dei poteri (non solo quelli classici, ma anche altri più recenti). Oligarchie nelle quali non è importante che a votare sia solo il 30% della popolazione, perchè vuol dire che il 30% si identifica con le strutture di potere. Negli Stati Uniti votano meno del 50% degli elettori, meno del 50% di questo 50%, cioè meno del 25%, non elegge Bush. Quindi immaginatevi che rappresentatività c'è. E’ facile poi che queste strutture possano essere appunto controllate dai centri di potere economici e mediatici che tendono a cooptare anche le altre forme di potere. Allora si parla di oligarchia, e c'è un paradosso, che è questo: si sostiene che nelle società democratiche c'è un'opposizione, la cittadinanza è libera di organizzarsi per protestare, per organizzare un'alternativa democratica al potere vigente, e questo in linea di principio è vero. Ma perchè è un paradosso? Perchè è molto più difficile organizzare una resistenza civile nonviolenta nelle società democratiche che non in quelle non democratiche. In che senso? Nel senso che nelle società non democratiche è più visibile l'obiettivo da raggiungere, più condiviso da una larga parte della popolazione, e quasi tutti gli esempi di successo delle fome di resistenza nonviolenta sono avvenuti in situazioni di questo tipo. Gli inglesi in India, i paesi dell'ex Unione Sovietica, le forme di resistenza civile in Norvegia, in Danimarca e quello che ricordavo delle donne a Berlino, la lotta contro l'Apartheid in Sudafrica. In ognuno di questi casi l'obiettivo era ben delineato, il potere era ben identificabile in un gruppo molto preciso, addirittura in figure emblematiche, e la lotta nonviolenta, che non è stata certo semplice, ha potuto essere organizzata in modo da raggiungere un ampio consenso. Anche nel caso della lotta di M.L.King (ricorre in questi giorni il 40° anniversario di quel suo straordinario discorso, "I have a dream", pronunciato durante la grande marcia a New York) c'era una grande quantità di persone, la popolazione afro-americana, che si identificava in quegli obiettivi precisi, forti, condivisi. Nelle nostre società democratiche, paradossalmente, questo non avviene tanto facilmente. È difficile individuare gli obiettivi, è difficile raggiungere un consenso sufficientemente ampio, è difficile individuare il potere contro il quale esercitare la resistenza civile nonviolenta. Anche in un paese come l'Italia possiamo verificarlo dalla frammentazione delle iniziative di resistenza a decisioni che raggiungono livelli di palese illegalità o violazione costituzionale, che altri ritengono però che non sia tale, e questo complica le cose. Quindi si è in una situazione in cui la lotta per modificare l'aggressione del capitalismo internazionale, in particolare del capitalismo neoliberista, che oggi ha un momento di particolare violenza, è più difficile. Non a caso una delle cose avvenute negli ultimi 10 anni, è la nascita di un movimento internazionale, non soltanto locale, che cerca di utilizzare tecniche e modalità di lotta, transnazionali ma anche all'interno dei singoli paesi, che si richiamano largamente alle tecniche di lotta nonviolenta.

Il confine con la legalità è che la lotta nonviolenta ha un'idea di legalità che non ha paura di ricorrere alla disobbedienza civile, purchè la disobbedienza sia civile, cioè purchè coloro che decidono di ricorrere a questa forma di lotta siano disposti a pagare il prezzo che la disobbedienza comporta. Questo è un elemento di contraddizione nella democrazia e, in generale, per una struttura di potere, ma per poterlo fare bisogna essere preparati. Le parole chiave sono forti. Le parole sono uccidere e morire. Su un asse c'è la disponibilità a morire – si e no – e sull'altro a uccidere – si e no -. In queste quattro opzioni possiamo mettere dei soggetti e collocare anche noi stessi per ragionare su che cosa vuol dire questo dal punto di vista dell'azione politica nonviolenta, che si traduce in resistenza in certi casi e in azione politica nel senso più ampio del termine in altri. Allora diamo indicazioni su chi sia disposto a uccidere, figure anche diverse che svolgono un ruolo tale da potersi configurare come oppressori. I militari, per diverse ragioni, oggi sono quelli che muoiono di meno. Il termine kamikaze è un termine un pò improprio, che si applica soltanto ai giapponesi; però per un'estensione non del tutto corretta dal punto di vista lessicale, il significato viene applicato oggi in generale al terrorista suicida, che con un termine ben preciso è chiamato anche martire. Questo indica come tutte le parole che usiamo sono problematiche, quindi dobbiamo usarle ma con cautela sapendo che questo genera sempre qualche confusione, qualche critica. I militari oggi andrebbero chiamati con un altro termine, cioè con quello di mercenari. I nostri vanno in Iraq, in Afghanistan perchè sono pagati 12 milioni al mese; nessuno di loro ha mai visto tanti soldi in una volta sola, quindi ci stanno un anno, vengono a casa e aprono un negozietto. Sono dei mercenari, loro non vanno assolutamente per morire. Infatti tutta la filosofia della guerra moderna, soprattutto degli Stati Uniti, è che loro hanno 140 morti e gli altri ne hanno 30mila, 50mila, 100mila. C'è una sproporzione tale per cui non possiamo assolutamente più chiamarli militari nel senso proprio del termine. Militare era il partigiano, il guerrigliero, nel senso un pò romantico del termine, cioè colui che sa che deve militare, appunto, come nella prima guerra mondiale. Il termine soldati è ancora diverso, perchè aveva una caratterizzazione di imposizione, di obbligo, mentre oggi essi sono tendenzialmente dei mercenari. Tant'è che oggi la quantità delle vittime civili nella maggior parte delle guerre arriva al 90%, mentre soltanto una piccola minoranza delle vittime sono "militari" in senso stretto (…). Il problema della nonviolenza è che appunto ci sono due accezioni, astenersi da e non lasciare commettere la violenza. Questo è il problema, per non lasciar commettere la violenza agli altri tu devi entrare nell'agone, entrare in gioco, e entrando in gioco metti a repentaglio la tua vita, come è stato fatto da quei giovani statunitensi, come Rachel Corrie e altri, che ovviamente non sono andati per fare i martiri nonviolenti, sono andati però per interporsi, per cercare di impedire che alcune delle violenze più estreme dell'esercito israeliano in Palestina avvenissero, e sono stati uccisi nel loro tentativo di interposizione per una ragione o per l'altra. Si possono portare tanti altri esempi, la tradizione della nonviolenza del forte è presente in tutte le principali culture. Satyagraha nella cultura nonviolenta esplicita gandhiana, Bodhisatva nella cultura buddhista è colui che rinuncia allo stato di illuminazione che ha raggiunto per aiutare gli altri, per ritornare nel mondo ed è uno anche disposto a donare la vita per questo compito. Nella tradizione della religione cristiana naturalmente c'è Gesù Cristo, in un modo diverso perchè naturalmente ogni religione interpreta, costruisce delle narrazioni, ci sono i giusti nella tradizione ebraica. E poi c'è il grande popolo, quelli che qualcuno ha definito i lillipuziani. Poi invece ci sono i pentiti, quelli che dicono che non si può fare niente e mandano l’esercito nel Kosovo perchè i serbi cattivi stanno uccidendo tutti gli albanesi. Quest'ultima è la nonviolenza del debole.

Allora che cosa dobbiamo fare? Preparare le condizioni perchè un numero crescente di persone sia preparato e disponibile. Per far questo occorrono tante condizioni, prima delle quali o per lo meno non ultima una buona riflessione su che cosa vuol dire vivere e morire, la riflessione sulla morte, sulla nostra fragilità umana che è legata poi anche al concetto della vita quotidiana. Non a caso un grande autore come Capitini ha scritto uno dei testi più belli sulla compresenza dei morti e dei viventi. Martin Luther King la sera prima di essere ucciso pronunciò quel famoso discorso che poi verrà ripreso al suo funerale: "Io sono giunto sulla vetta della montagna e ho visto la terra promessa. Domani mi uccideranno, ma non ho paura di morire, perchè ho raggiunto la vetta". Lui ha completato il suo sogno, raggiunto l'obiettivo che si era proposto (…). Il confine fra nonviolenza e violenza è fortemente intrecciato, non è separato.

(…) E poi c’è il potere. Le forme di potere secondo me vanno viste in questa luce: c'è un potere dall'alto e un potere dal basso. Il potere della nonviolenza, peoplès power, il potere della gente, è un potere al tempo stesso personale ma anche collettivo. Si usa il termine "empowerment" per parlare della crescita del potere collettivo. Quando nasce questo potere? Non ci sono delle regole. Come si fa a sentirlo, quante sono le persone sensibilizzate? Ecco, uno schema di riferimento è questo: 20%, 20% e 60%. 20% sono quelli che detengono il potere, l'area del consenso, negli Stati Uniti è circa il 25%. L'altro 20% è l'area di opposizione che lotta per un cambiamento più profondo, più radicale, un'opposizione che non mira solo al cambio di potere, destra-sinistra per intenderci. Il 60% il resto della gente. Il grosso problema è quello dell'indifferenza. Tutti gli analisti sono consapevoli che il potere deve catturare quanto più riesce di questo 60% in modo da raggiungere il quorum necessario per mantenere sè stesso. Per questo usa la pubblicità, la propaganda e strumenti di contenimento che funzionano abbastanza bene perchè sono studiati scientificamente. Il compito di chi lavora al potere dal basso è lo stesso: fare in modo che una parte consistente di questo 60% si impegni invece per un cambiamento. Questo 60% vive nell'indifferenza generalizzata del consumismo, in una forma di anestetizzazione delle coscienze. In generale le nostre sono società ricche dove è difficile creare il consenso per il cambiamento, quindi il potere dall'alto cresce. Anche nel caso appunto della resistenza alla guerra: anche la grande manifestazione del febbraio 2003 con decine di milioni di persone in piazza non ha potuto fermare la guerra – era quasi scontato ma non dovrebbe esserlo in via di principio. Il potere dall'alto è un potere politico, militare, economico e culturale. Sono quattro forme di potere che tendono sempre più ad essere concentrate in un unico potere nelle nostre società oligarchiche. Il potere culturale comprende quello mediatico e quello religioso, in tutte le sue manifestazioni. Il potere deve però fare i conti con alcune questioni non secondarie. Che progetto di vita noi abbiamo? Il progetto di vita non è solo collettivo, ma noi, ciascuno di noi, che cosa vuol fare dei propri anni di vita? Ci vuole un'ambizione simile a quella dei leader politici ma in positivo con qualche antidoto per costruire delle forme di vita collettiva arricchenti. C'è una dimensione che va recuperata ed è quella della vita comunitaria, non nel senso stretto di vita comunitaria che blocca e impedisce lo sviluppo delle persone, ma una vita più comunitaria fatta di relazioni, solidarietà, progetti comuni che tocchino concretamente gli aspetti del progetto costruttivo. Il progetto costruttivo deve essere un progetto in cui noi sviluppiamo la nostra capacità creativa e che si propone di star bene con se stessi, con gli altri e col mondo. Star bene con se stessi vuol dire che dobbiamo evitare che la scelta della nonviolenza sia vista come una visione faticosa, che la scelta, per esempio, del paradigma della semplicità volontaria come stile di vita che caratterizza una scelta economica nonviolenta non sia vista essenzialmente come rinuncia. Per far questo ci sono delle ricette precise e pratiche che molti stanno cercando di attuare. Bisogna costruire una società sostenibile, e per essere sostenibile bisogna che l'impronta ecologica sia al di sotto di quella consentita. L'impronta è un indicatore quantitativo che mi dice quanto territorio ho a disposizione, fra terre emerse e acqua, per la produzione dei beni e lo smaltimento dei rifiuti. Ci sono dei parametri precisi, quindi bisogna scoprire un'ecologia della quotidianità che ci porti a vivere con meno e meglio. Ci sono poi esempi di azioni apparentemente semplici e secondo alcuni secondarie che sono invece molto importanti. Per esempio il boicottaggio. Si chiama boicottaggio il non comperare la Coca Cola, il non andare al McDonald, il non andare in molti supermercati, il non fumare e così via. Il boicottaggio fu proposto nel '54 da un economista indiano amico di Gandhi che, ragionando sui problemi economici dell'India e del mondo intero, disse: se vogliamo contrastare il potere degli Stati Uniti (quello di allora, che non è certo paragonabile a quello di oggi) dobbiamo semplicemente boicottare i loro prodotti. Non lo abbiamo fatto, anzi abbiamo fatto il contrario. Un’economia nonviolenta è un'economia sostenibile, capace di rispondere maggiormente ai valori d'uso che ai valori di scambio. L'immagine di una società nonviolenta è l'immagine di una società nella quale noi riduciamo gradualmente il tempo che destiniamo alle preoccupazioni materiali per curare maggiormente la dimensione relazionale interpersonale e interiore. Cioè tutte cose che non sono presenti sul mercato. Sono valori d'uso, non sono valori di scambio. Gran parte di quelle società nonviolente di cui parlavo prima (quella sessantina individuata dagli antropologi) hanno questa caratteristica, sono società ritenute povere economicamente, ma con parametri diversi sono società ricche relazionalmente e il concetto di povertà non è un concetto di mancanza, è un concetto di frugalità, di semplicità. Non sempre di tipo volontario. Sono fragili, queste società; quando c'è l'impatto della modernizzazione, soprattutto se costruita da grandi paesi, possono essere travolte. E allora, certo, costruire una società capace anche di sopravvivere, oggi diventa un processo di transizione importante, a partire dall'inventario delle cose migliori che la nostra società ha prodotto e scartando le altre. Direi che la soluzione migliore è una transizione da una società come questa che ha alti livelli di consumo ad una società con consumi minori, una transizione in cui si faccia tesoro delle esperienze positive e negative che abbiamo attraversato, evitando ad altri paesi di percorrere gli stessi errori. Uno degli errori che abbiamo commesso è l'aver costruito delle dimensioni di scala delle nostre organizzazioni sociali troppo grosse, non sostenibili. La scala migliore è una scala intermedia, più vicina al villaggio, per ragioni anche energetiche oltre che di relazione umana. Oggi più che in passato questo è possibile perchè (e questo è un risultato della contradditorietà della nostra società), se da un lato c'è questo potere mediatico concentrato, dall'altro abbiamo anche alcuni strumenti mediatici orizzontali, come Internet; e oggi questo strumento, pur con tutti i tentativi che ci sono di fagocitarlo, consente una disseminazione, una possibilità di mettere in contatto piccole realtà senza bisogno di cadere nella concentrazione di scala grande, ed eludendo anche l’isolamento che un tempo caratterizzava le piccole comunità. Ecco quello che intendevo quando parlavo di una capacità creativa che sappia cogliere gli aspetti positivi della nostra cultura, che li valorizzi, senza cadere in una critica totalmente distruttiva che tende ad allontanare la gente. Dal punto di vista delle iniziative pratiche ci sono molte cose che si possono fare: per esempio i gruppi di acquisto solidali, che si vanno diffondendo in Italia, e di cui esiste una rete.

Poi ci sono iniziative che appartengono allo stile di vita personale: spegni la TV, e qui si apre un discorso complicato, perchè ogni tanto ci sono anche cose belle da vedere, non lo nego, però il 90% è spazzatura e il 10% è troppo poco per avere la televisione e mantenere quella struttura di potere. Poi usa la bicicletta e abbandona l'auto nella misura in cui riesci a farlo, pianta degli alberi, elimina il fumo ecc.. Cerca di conoscere le persone perché per conoscersi bisogna avere tempo a disposizione, disponibilità all'ascolto, recuperare capacità che man mano andiamo perdendo per la troppa fretta. Questi sono tutti aspetti della cultura della nonviolenza perché essa non è legata solo al momento dello scontro in cui il conflitto diventa violento. Dobbiamo coltivare tutto l'aspetto precedente per orientare le persone. E’ un problema di sanità mentale, perché è insano il tipo di vita che ci viene proposto e imposto, in cui tu passi l'80% della tua vita o in un ufficio o in una fabbrica o in un luogo di lavoro comunque deprimente e il più delle volte alienante mentre invece con le possibilità che abbiamo anche sul piano tecnologico l'orario di lavoro potrebbe essere ridotto al 20% di quello attuale, quindi con una totale liberazione del nostro tempo inteso non come tempo libero ma come fruizione che è determinata da noi, non è imposta da nessuno, non è programmata da altri. Ora invece è come se la società avesse paura che la gente sia libera di fare altre cose che non siano quelle programmate. Anche i giovani a volte non sono capaci di vedere come impiegare il proprio tempo, cosa fare della propria vita e di sè stessi. Ecco che allora per me camminare è una cosa fondamentale. Io vado in montagna da anni, anche in alto perchè abito in posti dove questo è normale, però ritengo che questa sia un'esperienza estremamente arricchente e formativa soprattutto per i giovani. Certo, non ci sono criteri univoci, è mettendo insieme tutto che poi si può arrivare a definire uno stile, dei comportamenti nonviolenti. Anche il vegetarianesimo comporta una riduzione della violenza sugli altri esseri. Un obiettivo non immediato ma da porre nell'agenda e che molti non hanno preso in considerazione è l'alternativa del modello di difesa, cioè costruire una difesa nonviolenta. Poniamo che ogni anno, per cinque anni, il 5% della spesa militare venga destinato alla costruzione di una difesa nonviolenta, corpi civili di pace e tutto ciò che questo comporta. Riduzione del 5% all'anno per una legislatura vuol dire ridurre complessivamente più del 25% (mi accontenterei anche del 3%) la spesa militare. È un obiettivo di per sè realistico, sensato, potrebbe essere accettato da un certo numero di persone anche se politicamente non credo che ci sia nessun partito disponibile ad accettarlo. Il 15-20% di 30mila miliardi di lire cominciano a essere 4mila-5mila miliardi da mettere a disposizione per la costruzione di forze nonviolente di pace – cifra tutt'altro che irrilevante, obiettivo sensato che permetterebbe la transizione nel senso che convivrebbero, per un certo periodo di tempo, un modello militare e una struttura non militare. Questo lo proponiamo per l'Italia, per l'Europa e per le Nazioni Unite. Le Nazioni Unite devono avere non solo dei Caschi blu ma anche una Polizia militare internazionale - io non sono d'accordo, ma, voglio dire, preferisco questa soluzione alla situazione attuale - e contemporaneamente destinare quella percentuale alla costruzione dei Caschi bianchi sotto l'egida delle Nazioni Unite. Per cui quando c'è una crisi mandi subito, preventivamente, 20mila Caschi bianchi. Anche dal punto di vista energetico uno potrebbe dire: per 5 anni riduciamo i consumi petroliferi - non quindi cose generiche -, per i consumi petroliferi io voglio che in Italia il petrolio che si importa diminuisca ogni anno del 3% o del 5% - non chiedo la luna, un obiettivo minimale attuabile –. Dopo 5 anni hai una riduzione complessiva del 15-20%, intanto ottieni dei risultati per poi andare verso un sistema energetico alternativo, in quel caso reinvestendo queste risorse nelle energie rinnovabili. Ma noi finora non siamo stati capaci di farlo. Abbiamo sottoscritto gli accordi di Kyoto ma l'Italia non sta rispettando questi accordi e le emissioni di CO2 invece di diminuire sono aumentate.

Per quanto riguarda la campagna per l’obiezione fiscale alle spese militari, essa non ha saputo convincere quegli ampi settori del movimento per la pace a partecipare in modo significativo. Il massimo numero di persone che hanno aderito è stato di 10mila quando c'è stata la prima guerra del Golfo. Questa campagna continua ad essere proposta, però nel frattempo sono avvenuti dei cambiamenti formali nel sistema di pagamento delle tasse per cui è diventata meno incisiva. Alcuni movimenti come il M.I.R e il Movimenro Nonviolento avevano deciso di sospendere quella campagna perchè aveva dei limiti organizzativi e di riproporla in un'altra forma, quella della contribuzione fiscale al posto dell’obiezione.

(…) Sulla questione del potere e dell’obbedienza: le persone obbediscono e disobbediscono. Disobbediscono in maniera incivile quando pensano di poterlo fare senza pagare nessuno scotto, quindi cose come non pagare le tasse, fare costruzioni abusive, guidare senza rispettare il Codice della strada fin tanto che riescono a non farsi beccare ecc.. Questa è la disobbedienza incivile, pratica molto diffusa in Italia. Passare alla disobbedienza civile richiede maturità, consapevolezza e obiettivi politici, quindi torno a dire: se non ci sono obiettivi condivisi, la gente obbedisce, perchè fin da bambini sono stati abituati a questo, non gli hanno insegnato che ci sono cose in cui si deve obbedire e cose in cui si deve disobbedire, per far valere la propria opinione quando ci sono delle ingiustizie. Ci sono genitori e insegnanti che educano in questo modo ma credo siano pochissimi, e noi interiorizziamo fin dall'inizio il rispetto dell'autorità comunque o la paura dell'autorità. Quindi l'obbedienza si basa sulla paura, sugli interessi (ci sono anche coloro che obbediscono per interesse), poi ci sono gli indifferenti che sono tali per ignoranza, non percepiscono neanche qual è esattamente il loro interesse. Uno si chiede: perchè tanta gente obbedisce all'idea di mettere i propri denari nei fondi d'investimento quando dovrebbero sapere che per l'80% quei fondi sono delle truffe e alla fine perde anche il capitale? Ma perchè qualcuno li ha convinti che invece è un buon affare! Quella che abbiamo attualmente è una democrazia oligarchica, neppure rappresentativa, anzi è una restrizione, non viviamo in una democrazia autenticamente partecipata, la partecipazione è modestissima da parte dei cittadini che tendono a deresponsabilizzarsi e a delegare. Forse nei piccoli centri potrebbe essere più facile cercare di invertire queste tendenze in modo che ci sia una prassi di maggiore partecipazione, però anche questa è da costruire, non è data per scontata, e ci vuole della gente che riesca ad animare, dei gruppi politici che effettivamente provino a invertire questa tendenza a partire dai bisogni reali della gente anzichè dalle cose calate dall'alto, però sono processi lenti. La nonviolenza richiede questo tipo di partecipazione. In tutta la tradizione capitiniana c'erano i centri di orientamento sociale (C.O.S.) che avevano proprio il compito di riunire le persone e farle partecipare alla progettazione. Adesso, con le esperienze di bilancio partecipativo fatte a Porto Alegre e altrove, c'è un tentativo di andare in questa direzione, ma è ancora una cosa minimale, però è un tentativo in positivo. Non basta il momento elettorale tradizionale, quella è una democrazia non sufficiente per affrontare questo tipo di problemi. Quindi l'obbedienza ha a che fare anche con questa questione.

(…) Gli esseri umani stanno intaccando la biosfera – mia madre, come tutte le signore di una certa età, si era accorta 20 anni fa che le stagioni non erano più le stesse. Io sono andato sul Gran Paradiso quest'estate e non abbiamo potuto fare la via normale, perché non c'è più il ghiacciaio - il ghiaccio si scioglie a tal punto che si spaccano le pietre – e abbiamo dovuto sospendere l'ascensione perché quest'anno la linea dello zero termico era a 4500 metri e quindi fino a 4500 metri non si arrivava al congelamento notturno. Tutto si è sciolto in maniera tale che il ghiaccio non compatta più la roccia. Allora tu non puoi più seguire certi percorsi perchè ti cadono i sassi in testa. Chi ha visto queste cose in atto negli ultimi anni non ha bisogno di altre conferme, non sono cose occasionali, sono oramai un processo per cui fra 20 anni i ghiacciai non ci saranno più, proprio letteralmente. Ecco che ci sono dei dati scientifici preoccupanti, e il circolo è vizioso. L'unica via di uscita è quella del risparmio energetico, dell'efficienza energetica, della riduzione dei consumi, di un'alternativa economica: strada praticabile ma difficile. Che cosa può succedere rispetto a quello che dicevamo? Ci sono stati 12mila morti questa estate? La prossima volta ce ne saranno 20mila, la prossima ancora 50mila e così via. Il trend verso il quale andiamo può essere quello della catastrofe. Noi però siamo degli struzzi, non vogliamo guardare in faccia una realtà estremamente pericolosa. Una strada per salvarci c'è, ma richiede un cambiamento di rotta il più veloce possibile, dei governi intelligenti, capaci e informati e una sterzata che può permettere di affrontare questi problemi. Però è molto difficile. Inoltre siamo entrati nel picco di Hubbert per la produzione del petrolio, cioè il petrolio nei prossimi 30-40 anni andrà declinando e noi dobbiamo sostituirlo. A parte il fatto che l'abbiamo utilizzato nel modo peggiore come combustibile che ha contribuito a produrre CO2, 30-40 anni sono pochi, solo che nessuno dei nostri governi progetta sui 30-40 anni, ma per 3-4 anni, se ci riescono. Nell'immediato la gente continua a guardare le veline alla televisione. Questo completa gli scenari che abbiamo descritto e l'urgenza di un cambiamento, ma ci vogliono delle minoranze attive, una società civile attiva, non una società civile generica.

(…) Il problema dell'informazione è che bisogna elaborare una cultura del rischio, dell'incertezza. La scienza non è basata su conoscenze certe, allora tu devi spiegare alla gente che non è che sei sicuro che domani ci sarà il tale fenomeno, ma che c'è il rischio che ci sia, quindi devi elaborare una cultura del rischio; cioè, anche se non ne sei sicuro, devi introdurre delle misure per cui, se si verificherà, tu hai preso le misure necessarie; se non si verificherà la soluzione che hai adottato è comunque positiva. È il principio di precauzione, e di reversibilità delle scelte. Sappiamo che se le cose andranno in un certo modo sarà la catastrofe, allora dobbiamo prendere delle precauzioni per evitare che la catastrofe si verifichi, questo è ciò che possiamo dire. (…) La nonviolenza è la capacità di trasformazione non distruttiva, se volete creativa, del potere. Questa definizione mette l'accento sul tema del conflitto al quale non viene data un'accezione necessariamente negativa, ma viene assunto nella sua complessità: conflitto come possibilità creativa e distruttiva. Il problema è la ricerca soprattutto della sua evoluzione nella direzione positiva e creativa; quindi la necessità di apprendere conoscenze, tecniche e metodi che permettono di evitare che il conflitto degeneri. Quando il conflitto è degenerato non lo chiamiamo più solo conflitto, ma con degli aggettivi specificativi: conflitto violento, guerra, conflitto armato. Usare il termine conflitto tout court per significare la violenza è metodologicamente riduttivo per non dire sbagliato - almeno dal punto di vista dal quale si mette oggi chi si occupa di ricerca per la pace -, ma è una precisazione linguistica importante. Allora bisognerebbe dire due cose sul conflitto, che ci permettono poi di avvicinarci al tema della resistenza. Resistenza è una tipica modalità di comportamento in una situazione conflittuale acuta. Se la resistenza è di tipo civile nonviolento è già una metodologia per una soluzione creativa, una trasformazione creativa del conflitto. Troverete nella letteratura tre principali scuole di pensiero. Una è la scuola della conflict resolution o risoluzione del conflitto. Per una serie di ragioni ci si è resi conto però che il termine risoluzione è un pò troppo rigido, conflitto è infatti una dinamica in evoluzione per cui non necessariamente si risolve ma si trasforma in altro, anche quando meno ce lo aspettiamo. Allora molti hanno introdotto altri termini. La seconda scuola parla di gestione del conflitto, ma è un termine un pò troppo manageriale, e infatti viene usato nel management, nelle pubbliche relazioni industriali, per fare in modo che il conflitto all'interno del mondo del lavoro non debordi e venga incanalato verso soluzioni che spesso sono precostituite da parte di chi cerca di gestirlo. Questo può avvenire anche a livello politico internazionale, ma gestirlo vuol dire incanarlo, certo è sempre meglio della violenza, ma non è la soluzione nonviolenta. La terza scuola è quella che parla della trasformazione nonviolenta del conflitto ed è oggi la scuola che fa capo in particolare a Galtung e alla organizzazione che egli dirige, la rete Transcend. Ovviamente nessuno esaurisce tutta la problematica del conflitto, le cose sono più complicate, però è un'impostazione molto significativa. Proviamo a dire qualcosa sulla trasformazione nonviolenta del conflitto in una situazione conflittuale acuta. Le situazioni conflittuali acute sono quelle asimmetriche; quelle simmetriche sono le situazioni in cui c'è una sostanziale parità di potere fra le parti contrapposte. (…) Uno schema per rappresentare un conflitto può essere quello ispirato all’analisi di Sharp: infatti ci sono sempre tre gruppi principali ognuno dei quali al suo interno è differenziato: gli oppressori, gli oppressi e gli indifferenti. La dinamica della trasformazione del conflitto, dal punto di vista della nonviolenza, può essere descritta secondo una determinata articolazione. In particolare la situazione da prendere in considerazione è quella asimmetrica. Nella situazione asimmetrica abbiamo resistenza, lotta nonviolenta, potere della nonviolenza. Nella situazione simmetrica abbiamo invece la mediazione, le parti sono in una situazione di stallo e allora accettano più facilmente una mediazione esterna. Tutte le situazioni di stallo che si verificano sono tipicamente affrontate sulla scala della mediazione. La mediazione poi è stata sviluppata soprattutto nei conflitti interpersonali, nella scuola, in famiglia, ecc.. La situazione è data dal fatto che ci sono gli oppressori che esercitano una repressione violando dei diritti umani che gli oppressi ritengono che dovrebbero essere rispettati. Su questo piano esistono vari punti di vista:

C'è poi un problema di comunicazione, la comunicazione nonviolenta riduce il potenziale di violenza dell'avversario, perchè non ne mette a repentaglio la vita, distinguendo tra ruolo e attore – si lotta contro il ruolo, contro l'ingiustizia, non contro la singola persona – e questo è importante perchè punta l'attenzione sul problema e non sugli aspetti soltanto soggettivi sempre presenti nel conflitto. Occorre controllare la rabbia, essa dev'essere orientata nei confronti delle cose ingiuste, non nei confronti delle persone - cosa che invece i gruppi che agiscono politicamente accettando la violenza non comprendono, e altri credono che l'odio sia l'elemento fondamentale nella lotta di classe, nella lotta contro l'oppressore e non si rendono conto che questo è negativo e controproducente nel rilanciare dei messaggi in una società sempre più complessa, con maggiori elementi di democrazia anche se soltanto formale, e attenta a tutte queste testimonianze. A maggior ragione tenuto conto che il meccanismo perverso, ma in un senso elevato, dell’informazione amplifica la violenza, ma può anche amplificare la nonviolenza. C'è stato un caso in cui la nonviolenza è stata amplificata dai media, è stato nel 1989. Jacques Sémelin ha scritto un bellissimo libro, "La révolution au bout de l'onde", che significa ‘la rivoluzione sulla cresta dell'onda’, dove l'onda era quella delle comunicazioni mediatiche che hanno avuto un ruolo fondamentale in quegli anni per amplificare le lotte nonviolente che stavano avvenendo nei paesi dell'Est europeo. Sono analisi poco conosciute purtroppo, ma che permettono di aggiungere molti elementi a queste considerazioni. E’ chiaro che gli oppressori possono cercare di distruggere il gruppo, anche attaccandolo con violenza, e non è detto che il gruppo sia capace di impedire la violenza dell'avversario – è avvenuto con Gandhi e con Martin L. King –, ci sono anzi manifestazioni che non sono solo happening ma in cui si rischia perfino la morte, anche se la gente non va per morire, non sono tutti eroi. Però nei due casi citati, quando venivano attaccate le persone si inginocchiavano a pregare e cantare nella loro tradizione morale, cosa che veniva preparata precedentemente e sostenuta nelle chiese, proprio per dimostrare all'avversario che nonostante la repressione e la violenza loro mantenevano un atteggiamento nonviolento. Questo non permette immediatamente di raggiungere il risultato, tu sei messo alla prova e la prova può essere anche difficile e durare a lungo. Ora, se questo è lo schema il conflitto può essere rappresentato con un triangolo che rappresenta tre elementi fondamentali: nel vertice A mettiamo gli atteggiamenti, le attitudini, le percezioni, cioè i dati soggettivi che ognuno di noi in una situazione conflittuale percepisce, basti pensare ai conflitti interpersonali; poi c'è il comportamento che può esserci o no, composto di fatti, di atti espliciti; e poi ci sono le contraddizioni che sono un elemento oggettivo. Il compito è quello di separare innanzitutto la parte oggettiva da quella soggettiva e cercare di risolvere ciascuno di questi poli con una particolare strategia. Per quanto riguarda la parte soggettiva innescando un meccanismo di empatia perché serve a sciogliere ciò che in negativo noi percepiamo, a identificarci con l'altro ed a vederne e mantenerne l'umanità e di aiutarlo nel processo di riumanizzazione. La lotta nonviolenta infatti ci propone di liberare entrambi, oppressi ed oppressori, dalle catene della violenza. Il comportamento deve essere mantenuto nonviolento e di dialogo, cioè è necessaria l’astensione dall'uso della violenza come regola di comportamento rigorosa. Il che richiede un aumento di creatività per trovare delle soluzioni. Tutti gli attori devono averne un beneficio e quindi le soluzioni devono a volte cambiare il paradigma col quale si guarda la situazione. Gli oppressori sono dei soggetti e non delle strutture e, anche se la struttura può opprimere, bisogna individuare i soggetti. Questo è uno dei problemi che abbiamo quando non riusciamo a identificare i soggetti. E’ importante infatti identificare un problema, perchè se non lo si fa è poi difficile prevedere la dinamica della lotta.

Nelle lotte sindacali, sia che si tratti del sindacato tradizionale, sia che si parli di sindacati di base, l’analisi del conflitto dovrebbe svilupparsi attraverso un'analisi anche degli obiettivi e del tipo di critica del sistema economico nel quale siamo inseriti; gli obiettivi sono soltanto di rivendicazione salariale, all'interno di un quadro che è più o meno quello esistente, oppure sono degli obiettivi che mettono in discussione quegli elementi fortemente accettati dell'economia dominante? Coloro che sono garantiti tutto sommato accettano come un dato acquisito e da non mettere in discussione quei benefici di tipo consumistico che il sistema mette a disposizione. Per esempio non è oggetto di discussione il fatto che l'auto è qualcosa di discutibile perchè non si entra nel merito delle compatibilità ambientali e umane, nella redistribuzione della ricchezza, ecc. Allora, i gruppi marginali rappresentati dai sindacati di base aspirano semplicemente a diventare garantiti come gli altri, oppure hanno degli altri obiettivi? Questo è importante da chiarire. A mio parere val la pena di sottolineare che tutto il dibattito che oggi si fa su queste questioni cade necessariamente su questi punti. Il problema eco-eco va chiarito, la dimensione economica oggi mette in discussione la possibilità che ci sia nel futuro una continuità di questo tipo e io ritengo che questo sia il problema centrale per cui il conflitto deve essere inserito dentro questo quadro. Oggi si assiste a un attacco esplicito nei confronti dei gruppi più marginali e più poveri, quindi c'è un elemento ideologico ma c'è anche un vincolo di natura ecologica, e ciò è più evidente che in passato. Se cento anni fa si poteva prescindere dagli elementi ecologici, oggi non è più possibile. Quindi il conflitto deve essere inserito dentro un contesto più ampio che diventa necessariamente globale.

S.Anna di Stazzema agosto 2003

Note:
(1) Il contadino e sacrestano austriaco Franz Jagerstatter nel 1943 rifiutò il servizio militare sotto il nazismo e venne giustiziato.

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